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La puntina stridette sul disco. Barrett fermò il grammofono. L’immenso salone si immerse in un pesante silenzio.

Lo ruppe Florence. «Auf wiedersehen» disse. «Arrivederci.»

«Lionel…»

«Quel disco non era mica indirizzato a noi» disse Barrett.

«Ma…»

«È stato inciso un mezzo secolo fa. Guardalo.» Lo sollevò. «È una pura e semplice coincidenza, se le parole fanno anche al caso nostro.»

«Ma perché il fonografo si è messo in moto da solo, allora?» domandò Florence.

«Questo è un altro problema» disse Barrett. «Io parlavo del contenuto del disco, finora.» Si volse a Fischer: «Si è messo a suonare da solo anche nel 1940? I resoconti non ne parlano».

Fischer scosse la testa.

«Ne sa niente, lei, di questo disco?»

Non pareva disposto a rispondere. Poi disse invece: «Tante volte arrivavano degli ospiti, e lui non si faceva trovare in casa. Allora quel disco veniva messo su per loro». Fece una pausa. «Era un gioco che lo divertiva. Si nascondeva e spiava i suoi ospiti che lo credevano via.»

Barrett annuì.

«Ma può darsi anche che fosse invisibile» disse Fischer. «Lui asseriva di aver questo potere. Insomma, diceva ch’era in grado di attrarre l’attenzione di un gruppo di persone su un qualche oggetto e poi muoversi fra loro senza farsi accorgere, e ciò grazie alla sua forza di volontà.»

«Ne dubito» disse Barrett.

«Davvero?» Fischer ebbe uno strano sorrisetto, e intanto guardava fisso il fonografo. «La nostra attenzione era attratta da quello lì, poco fa» disse. «E che ne sa, che lui non ci sia passato accanto mentre noi eravamo intenti ad ascoltare la sua voce?»

ore 12.46

Stavano salendo le scale, quando un gelido alito di vento passò in mezzo a loro e fece vacillare le fiammelle delle candele. Quella di Edith si spense addirittura. «Che cos’è stato?» bisbigliò.

«Uno spiffero» disse Barrett, senza esitare. Le riaccese la candela con la sua. «Ne discutiamo poi.»

Edith inghiottì, gettò un’occhiata a Florence. Barrett le diede il braccio e ripresero a salire le scale. «Accadranno varie cosette del genere, durante questa settimana» disse. «Ci farai l’abitudine.»

Edith non disse altro. Fischer e Florence, alle loro spalle, si scambiarono un’occhiata.

Giunsero al piano di sopra e percorsero la balconata prospicente il vestibolo. Sulla destra avevano la balaustra, sulla loro sinistra si aprivano, nella parete rivestita di pannelli di legno, le porte delle varie camere da letto. Barrett ne spinse una, a caso. Guardò dentro. Si rivolse a Florence: «Le andrebbe bene, questa?».

Ella si affacciò sulla soglia. Dopo qualche momento, si volse. «Niente male» disse. Sorrise a Edith. «Ma lei starà più comoda, qui.»

Barrett stava per ribattere, ma poi disse soltanto: «Va bene» e fece un gesto a sua moglie.

Questa lo seguì e richiuse la porta alle loro spalle. Lo guardò attraversare zoppicando la camera. C’erano due letti di legno scolpito, stile Rinascimento, con un comodino in mezzo su cui posava una lampada; e, accanto a essa, un telefono. Dirimpetto c’era un vasto caminetto, con una poltrona a dondolo davanti. Il pavimento era di tek, ricoperto quasi per intero da un tappeto persiano azzurro, sette metri per dieci. Al centro del tappeto c’era un tavolo ottagonale con una sedia imbottita di cuoio rosso.

Barrett andò a dare un’occhiata al bagno. Poi si rivolse a sua moglie: «Quanto a quello spiffero,» disse «non mi andava di mettermi a discutere con Miss Tanner. Per questo ho sorvolato».

«Ma si è verificato realmente, non è vero?»

«Sì, certo» rispose lui, sorridendo. «Una semplice manifestazione cinetica: non guidata, non intelligente. Miss Tanner pensi quel che vuole. Avrei dovuto avvertirti prima.»

«Avvertirmi di che cosa?»

«Che ne sentirai delle belle da Miss Tanner durante questa settimana. Dovrai farci il callo. Come sai, quella è una spiritualista. Crede nella sopravvivenza dell’anima e che si possa comunicare con gli spiriti disincarnati. Questo è il fondamento della sua dottrina, che io reputo erronea e di cui appunto intendo dimostrare l’infondatezza. Nel frattempo, però,» le sorrise «ti toccherà ascoltare l’esposizione delle sue tesi. Non posso mica pretendere che diventi muta.»

Florence osservò la sua camera. C’erano due letti dalla testiera minutamente scolpita. Fra loro, un canterano. Sopra questo cassettone c’era un lampadario d’argento stile italiano.

Accanto alla finestra c’era un tavolino stile spagnolo, con una sedia. Sopra il tavolo c’era una lampada stile cinese, e accanto a essa un telefono stile francese.

Florence ne sollevò il ricevitore. Era isolato. S’aspettava forse che funzionasse? pensò, divertita. Comunque, doveva servire solo per comunicazioni interne.

Si guardò ancora intorno. C’era qualcosa in quella camera. Ma che cosa? Una personalità? Un residuo di emozioni? Florence chiuse gli occhi e attese. C’era qualcosa nell’aria. Senza dubbio. Lo sentiva. Sentiva quel qualcosa pulsare e spostarsi, venirle incontro, poi ritrarsi come una bestiola impaurita.

Dopo un po’ riaprì gli occhi. Verrà, verrà, pensò. Andò nella stanza da bagno. Le piastrelle bianche alle pareti rifletterono vividamente la luce della candela, da farle socchiudere un po’ gli occhi lì per lì. Posò il candeliere sul lavandino, aprì il rubinetto dell’acqua calda. Per un po’, non accadde nulla. Poi, con un cupo gorgoglio, un getto d’acqua color ruggine schizzò fuori. Florence attese che l’acqua si facesse chiara, prima di toccarla. Emise un sibilo: era gelata. Speriamo che anche lo scaldabagno non sia rotto, pensò. Chinandosi, si spruzzò un po’ d’acqua sul viso.

Sarei dovuta entrate nella cappella, pensò. Non avrei dovuto tirarmi indietro, alla primissima avvisaglia di ostilità. Ebbe una smorfia, al ricordo della nausea violenta che aveva provato, quando stava per entrarci. Che posto orrendo, pensò. Doveva misurare le proprie forze. A sforzarsi troppo, pensò, rischiava di perdere i sensi. Ci andrò, promise a se stessa, ci andrò quanto prima. Dio me ne darà la forza, al momento giusto.

La stanza di Fischer era più piccola delle altre due. C’era un solo letto, a baldacchino. Egli si sedette sulla sponda e stette a contemplare il complicato disegno del tappeto. La sentiva intorno a sé, quella casa, come un immenso essere vivente. Essa sa che sono qui, pensava. Belasco lo sa. Tutti loro lo sanno, che sono tornato qui. Io, l’unico loro sbaglio. E mi stanno osservando, aspettano di vedere quel che farò.

Ma non avrebbe fatto nulla avventatamente, questo era poco ma sicuro. Non avrebbe compiuto nessuna mossa, prima di essersi reso conto dell’ambiente, della situazione.

ore 14.21

Fischer entrò nel salone con la sua torcia elettrica. Si era cambiato d’abito e indossava un maglione nero dal collo alto, calzoni neri di velluto a coste e scarpe bianche da tennis. A passi felpati si diresse verso il tavolo dove Barrett, seduto, ed Edith, in piedi, stavano aprendo delle scatole di legno ed estraendone vari aggeggi. Il fuoco ardeva nel caminetto.

Edith diede un balzo, quando Fischer emerse dall’ombra. «Serve aiuto?» egli chiese.

«No, tutto procede bene» disse Barrett, sorridendo. «La ringrazio, comunque, per la sua cortesia.»

Fischer sedette su una sedia. Stette a guardare quell’uomo massiccio e barbuto mentre, delicatamente, estraeva uno strumento dai trucioli della scatola, lo puliva con un panno e lo deponeva sulla tavola. Pignolo per la sua attrezzatura, pensò Fischer. Estrasse una sigaretta e l’accese, guardando l’ombra immensa e deforme che Edith proiettava sulla parete agitarsi, mentre lei tirava su un’altra cassetta e la deponeva sul tavolo.