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Avevo uno scopo ben preciso, questo è certo; pochissime delle cose che faccio sono immotivate, in un modo o nell’altro. Stavo cercando il teschio del Vecchio Saul.

Lanciai il torsolo della mela oltre il torrente. Sprofondò lontano, nel fango dell’argine, con un bel risucchio. Decisi che era giunto il momento di esaminare per bene l’interno del Bunker, e mi avviai lungo l’argine ad andatura sostenuta, aggirando la duna più a sud per dirigermi al vecchio sgabuzzino. Mi fermai a guardare la costa. Sembrava non ci fosse niente di interessante là, ma mi venne in mente la lezione del giorno precedente, quando avevo fatto una sosta per annusare l’aria e tutto mi era sembrato a posto, e dieci minuti dopo stavo combattendo con un coniglio kamikaze. Affrettai il passo, allontanandomi dalla duna per avvicinarmi alla linea dei detriti vomitati dal mare.

C’era una bottiglia. Un nemico davvero di poca importanza, e poi era vuota. Scesi verso la riva e scagliai in mare la bottiglia. Venne a galla, col collo rivolto verso l’alto, a dieci metri di distanza. La marea non aveva ancora ricoperto i ciottoli, così ne raccolsi una manciata e mi misi a scagliarli contro la bottiglia. Era piuttosto vicina, tanto da permettermi lanci dal basso verso l’alto. I sassolini che avevo scelto erano tutti più o meno della stessa misura, quindi ebbi la possibilità di fare tiri molto precisi: quattro finirono in acqua, il quinto mandò in frantumi il collo della bottiglia. Una vittoria da niente, perché le bottiglie le avevo già sconfitte definitivamente da tempo, subito dopo aver imparato a fare i lanci, quando per la prima volta avevo capito che il mare era un nemico. Nonostante tutto, di tanto in tanto continuava a mettermi a dura prova, il mare, e io non ero proprio nello spirito adatto per permettere la benché minima invasione del mio territorio.

La bottiglia andò a fondo. Tornai alle dune, salii in cima a quella su cui stava il Bunker, mezzo sepolto nella sabbia, e diedi un’occhiata intorno con il binocolo. La costa era limpida, anche se il tempo non lo era. Scesi verso il Bunker.

La porta di ferro l’avevo riparata da parecchi anni, allentando i cardini arrugginiti e stringendo le guide di scorrimento per la spranga. Tolsi la chiave dal lucchetto e aprii la porta. Dentro c’era un odore familiare di cera, di bruciato. Chiusi la porta e ci appoggiai dietro un puntello di legno, quindi restai immobile un attimo ad aspettare che gli occhi e la mente si adattassero al buio e alle sensazioni tattili del posto.

Dopo un po’ cominciai a intravedere qualcosa alla luce che filtrava dalla tela di sacco appesa alle due strette fessure che facevano da finestre. Mi tolsi lo zaino e il binocolo e li appesi ai chiodi conficcati nel muro mezzo sgretolato. Presi la latta con i fiammiferi e accesi le candele. Fecero una fiammata giallastra e io mi inginocchiai con i pugni stretti e mi misi a pensare. Avevo trovato l’attrezzatura per fare le candele nell’armadio sotto la scala cinque o sei anni prima, e per mesi avevo fatto pratica con i colori e le varie consistenze prima che mi saltasse in mente di usare la cera come prigione per le vespe. Alzai lo sguardo e vidi la testa di una vespa che spuntava dall’alto di una candela sull’altare. Sulla candela che avevo appena acceso, di color rosso sangue e grossa quanto il mio polso, c’erano la fiamma immobile e la testolina nel suo guscio di cera, e sembravano i pezzi di un gioco strano. Mentre ero lì a guardare, la fiamma, spostata indietro di un centimetro rispetto alla testa della vespa imprigionata nella cera, liberò dal grasso le antenne, che si raddrizzarono per un secondo prima di estinguersi nel fuoco. Gocciolata via la cera, la testa cominciò ad andare in fumo, poi il fumo si accese e il corpicino della vespa — un’altra fiamma dentro al cratere della candela — si mise a guizzare e crepitare man mano che il fuoco inceneriva l’insetto dalla testa fino al resto del corpo.

Accesi la candela che sta nel teschio del Vecchio Saul. Quella sfera d’osso, bucata e ingiallita, aveva causato la morte di tutte quelle creaturine crepate nel fango dall’altra parte del torrente. Guardai la fiamma fumosa guizzare nel teschio, nel punto in cui un tempo c’era il cervello del cane, e chiusi gli occhi. Vidi ancora una volta le Terre del Coniglio, e i corpi in fiamme che schizzavano via fulminei. Vidi ancora quel coniglio che era scappato dalle Terre ed era morto un istante prima di giungere al fiume. Vidi la Distruttrice Nera e mi ricordai della sua morte. Pensai a Eric, e mi chiesi cosa significasse quell’avvertimento della Fabbrica.

Vidi me, Frank L. Cauldhame, e vidi ciò che avrei potuto essere: un individuo alto e slanciato, forte e determinato e pronto a farsi strada nel mondo, sicuro e ostinato. Aprii gli occhi e deglutii, con un respiro profondo. Una luce fetida brillava nelle orbite del Vecchio Saul. Su tutt’e due i lati dell’altare le candele guizzavano nella corrente insieme alla fiamma del teschio.

Diedi un’occhiata di ricognizione all’interno del Bunker. Teste mozze di gabbiani, conigli, cornacchie, topi, civette, talpe e lucertole mi guardavano con aria di disprezzo. Erano appese a seccarsi a piccoli cappi di filo nero penzolanti da corde tese sui muri da un angolo all’altro, e proiettavano sulle pareti retrostanti ombre indistinte e cangianti. La mia collezione di teschi mi guardava, sparsa in terra lungo i muri, su basamenti di legno o di pietra, o su lattine e bottiglie abbandonate dal mare. Le ossa gialle del cranio di cavalli, cani, uccelli, pesci e montoni guardavano faccia a faccia il Vecchio Saul, certi tenevano aperto il becco, certi la mascella, altri tenevano becco e mascella chiusi, coi denti che spuntavano come artigli sfoderati. Le fialette con i miei preziosi fluidi le tenevo alla destra dell’altare di mattoni, legno e cemento dove stavano le candele e il teschio; a sinistra si innalzava un’alta pila di cassetti di plastica trasparente, quelli che si usano per metterci viti, rondelle, chiodi e uncini. Ogni cassettino, non più grande di una scatola di fiammiferi, conteneva il corpo di una vespa che era passata per le mani della Fabbrica.

Allungai il braccio per prendere alla mia destra un grosso recipiente di latta, feci leva col coltello sul coperchio serrato e con un cucchiaino presi un po’ dell’intruglio bianco che c’era dentro per metterlo su una piastra tonda di metallo davanti al teschio del cane. Dopodiché tolsi una vespa morta, quella che stava lì da più tempo, dal suo cassettino e la feci scivolare sul mucchio di granelli bianchi. Rimisi a posto il contenitore ben sigillato e il cassetto di plastica e accesi un piccolo rogo con un fiammifero.

Il miscuglio di zucchero e diserbante cominciò a splendere e sfrigolare, la luce intensa mi attraversò bruciando, e nuvole di fumo mi avvolsero la testa. Trattenni il respiro e gli occhi cominciarono a lacrimarmi. La fiamma si estinse in un istante, l’intruglio e la vespa un unico grumo nero di detriti sfigurati e purulenti che andavano raffreddandosi da quel calore giallo e intenso. Chiusi gli occhi per concentrarmi sui contorni dell’abbaglio, ma mi era rimasto impresso solo il ricordo del fuoco, la cui immagine si stava dissolvendo allo stesso modo in cui si era estinta la massa incandescente sulla piastra di metallo. L’immagine mi danzò per un attimo nelle retine, poi scomparve. Avevo sperato di poter vedere il volto di Eric, o di carpire qualche altro indizio riguardo a ciò che sarebbe avvenuto, ma non ottenni nulla.

Mi sporsi in avanti, spensi le candele che avevo usato per le vespe, a destra e poi a sinistra, soffiai attraverso un occhio e spensi la candela dentro al teschio del cane. Con gli occhi ancora abbagliati, trovai a tentoni l’uscita muovendomi al buio, col fumo che mi circondava. Uscii, lasciando che il fumo si disperdesse nell’aria umida. Spirali grigio-blu si avvolgevano tutt’attorno staccandosi dai miei capelli e dai vestiti mentre me ne stavo immobile là fuori a respirare profondamente. Chiusi gli occhi per un istante, poi tornai nel Bunker per mettere in ordine.