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Tutto quel che restava del coniglio ricadde al suolo, alle mie spalle, lontano. Seguii l’odore di bruciato fin dove giacevano i resti. Che consistevano essenzialmente nella testa, in un moncherino verminoso di spina dorsale e costole, e in circa una metà della pelle. Digrignai i denti e raccolsi quei caldi avanzi, li riportai alle Terre e li scaraventai dall’alto del pendio.

Rimasi in piedi, sotto la luce obliqua del sole, che mi avvolgeva calda e gialla, col tanfo di carne bruciata ed erba che si spargeva nel vento, il fumo che saliva nell’aria dalle tane e dai cadaveri, grigio e nero, l’odore dolciastro della benzina inesplosa che gocciolava dal lanciafiamme, dove l’avevo lasciato, e respirai profondamente.

Con quel che restava della benzina annaffiai la fionda e la bottiglia ormai vuota del lanciafiamme, che erano rimaste là sulla sabbia, e appiccai il fuoco. Mi misi a sedere a gambe incrociate proprio accanto alle fiamme, guardandole fisse controvento finché non si spensero e non rimase altro che la parte metallica della Distruttrice Nera, quindi raccolsi lo scheletro annerito dalla fuliggine e lo seppellii là dove era stato distrutto, ai piedi della collina. Che ora avrebbe avuto un nome: la Collina della Distruttrice Nera.

Il fuoco si era spento dappertutto. L’erba era troppo tenera e umida per potersi incendiare per bene. Non che me ne sarebbe importato qualcosa se si fosse bruciata. Avevo pensato di dare fuoco anche ai cespugli di ginestre, ma i fiori dimostravano sempre un che di amichevole quando spuntavano, e il fogliame offriva un odore migliore al naturale che non quand’era bruciato, e così non lo feci. Pensai che di danni ne avevo fatti già abbastanza per un giorno. La fionda era stata vendicata, il coniglio — o ciò che stava a significare, il suo spirito, forse — era stato insozzato e umiliato, gli era stata data una dura lezione. Mi sentivo bene. Se il fucile fosse stato a posto e non fosse entrata la sabbia nel mirino o in altre parti terribili da pulire, avrei quasi potuto dire che ne era valsa la pena. La Difesa, tenendo conto del bilancio, poteva permettersi di comprare una nuova fionda anche il giorno dopo. Per la balestra avrei dovuto aspettare un’altra settimana o giù di lì.

Con una deliziosa sensazione di sazietà dentro di me, impacchettai la Borsa da Guerra e arrancai verso casa, ripensando a ciò che era successo, cercando di sommare i perché e i percome, di capire qual era la lezione da trarre, quali i segni da leggere in tutta questa faccenda.

Lungo la strada trovai il coniglio che pensavo fosse fuggito, steso vicino all’acqua nitida e brillante del ruscello. Annerito e contorto, rannicchiato stretto in un groviglio inquietante, con gli occhi secchi e privi di vita che mentre passavo mi fissavano quasi a volermi accusare.

Con un calcio lo buttai nell’acqua.

L’altro mio zio che è morto si chiamava Harmsworth Stove, parente da parte del ramo familiare della madre di Eric. Era un uomo d’affari e viveva a Belfast. Lui e sua moglie si erano presi cura di Eric per circa cinque anni, quando mio fratello era ancora un moccioso. Harmsworth finì per suicidarsi con un trapano elettrico e una punta da sette millimetri. Introdusse l’aggeggio da un lato del cranio e, constatando di essere ancora in vita anche se un po’ dolorante, si recò in macchina fino a un ospedale lì vicino, dove più tardi morì. A dire il vero, è possibile che io abbia in qualche modo a che fare con la sua morte, visto che accadde neanche un anno dopo che gli Stove persero la loro unica figlia, Esmeralda. Una cosa non sapevano, loro e per la stessa ragione tutti gli altri: Esmeralda è stata una delle mie vittime.

Andai a letto, quella notte, ad aspettare che mio padre rientrasse e che squillasse il telefono. Nel frattempo pensai a quanto era accaduto. Forse quell’enorme coniglio non era uno di quelli delle Terre, forse era una bestia selvaggia arrivata lì da fuori per terrorizzare i conigli del posto e diventarne il capo, per poi morire in un incontro con un essere superiore di cui neanche poteva comprendere la vera essenza.

A ogni modo, si trattava di un Segno. Non avevo dubbi a riguardo. Quello snervante episodio doveva significare qualcosa. La mia reazione istintiva avrebbe potuto avere a che fare con il fuoco che la Fabbrica aveva profetizzato, ma dentro di me sapevo bene che non sarebbe finita lì, e che altre cose sarebbero successe. Ne era segno tutta quella faccenda nell’insieme, non solo la ferocia inattesa del coniglio che avevo ammazzato, ma anche la mia reazione furiosa, quasi sconsiderata, e il fato degli altri conigli innocenti che avevano subito l’impatto della mia collera.

Questa storia significava qualcosa non solo in riferimento a eventi futuri, ma anche riguardo al passato. La prima volta che commisi un assassinio fu a causa di certi conigli che avevano subito una morte violenta, una morte violenta provocata dalla bocca di un lanciafiamme praticamente identico a quello che avevo usato per compiere la mia vendetta sulla collina dei conigli. Era davvero troppo, tutto così concluso e perfetto. I fatti stavano prendendo velocemente una piega peggiore di quanto avrei potuto aspettarmi. Rischiavo di perdere il controllo della situazione. Le Terre del Coniglio — quello che credevo fosse un felice terreno di caccia — avevano dimostrato che mi sarebbe potuto benissimo capitare.

Dal più insignificante al più importante, i disegni suggeriti da queste storie si rivelano sempre veri, e la Fabbrica mi ha insegnato a farci attenzione e a rispettarli.

La prima volta che uccisi, dunque, fu a causa di quello che mio cugino Blyth Cauldhame aveva fatto ai nostri coniglietti, il mio e quello di Eric. Fu Eric a inventare il lanciafiamme, che stava in quella che allora era la rimessa delle biciclette (la mia rimessa, ora). Nostro cugino, che era venuto a passare il weekend da noi con i suoi genitori, decise che sarebbe stato divertente fare un giro con la bici di Eric nel fango molle della zona meridionale dell’isola. E fece proprio questo, mentre io e Eric stavamo fuori a far volare gli aquiloni. Lui tornò indietro e riempì il lanciafiamme di benzina. Si mise a sedere nel giardino sul retro, senza poter essere visto dalla finestra del salotto (dov’erano seduti i suoi genitori con mio padre), vicino al bucato che svolazzava al vento. Accese il lanciafiamme e schizzò vampate sulle due conigliere, mandando in cenere i nostri tesorucci.

Eric soprattutto ne rimase davvero sconvolto. Piangeva come una femminuccia. Avrei voluto uccidere Blyth lì stesso, in quel momento; non bastava la bussata che si era preso da suo padre James, fratello di mio padre, per quanto mi riguardava; non bastava, per quel che aveva fatto a Eric, mio fratello. Eric era inconsolabile, disperato e desolato perché era stato lui a costruire l’aggeggio che Blyth aveva usato per distruggere le nostre adorate bestiole. Era sempre stato piuttosto sentimentale di temperamento, il più sensibile, il più intelligente. Finché non ebbe quella sgradevole esperienza, tutti erano convinti che avrebbe fatto strada. Comunque, fu così che nacquero le Terre del Teschio, la zona della grossa duna dietro casa, in parte ricoperta di terra, dove stanno tutti i nostri animaletti morti. I primi furono i coniglietti bruciati. Il vecchio Saul ci andò a finire ancora prima, ma fu un’eccezione.

Non avevo detto niente a nessuno, neanche a Eric, di quello che volevo fare a Blyth. Avevo una certa saggezza anche allora, alla tenera età di cinque anni, quando quasi tutti i bambini sono soliti dire a genitori e amici che li odiano e che vorrebbero vederli morti. Io non dissi nulla.

Quando Blyth tornò, l’anno dopo, era diventato ancora più insopportabile, perché aveva perso la gamba sinistra fin sopra il ginocchio in un incidente (il bambino con cui si era cimentato in una prova di coraggio era rimasto ucciso). Blyth risentiva amaramente del suo handicap; aveva dieci anni, allora, ed era molto attivo. Cercava di comportarsi come se quell’orrendo affare rosa che doveva agganciarsi addosso non esistesse, come se non avesse niente a che fare con lui. Riusciva più o meno ad andare in bici, e gli piaceva giocare alla lotta o a pallone, di solito in porta. Io avevo solo sei anni, e anche se Blyth sapeva che avevo avuto un certo incidente parecchio tempo prima, apparivo comunque ai suoi occhi sicuramente molto più dotato, nel fisico, rispetto a lui. Si divertiva un mondo a sballottarmi, a fare a botte con me, a prendermi a pugni e a calci. Dimostrai un interesse convincente per tutti quei giochi scatenati, per una settimana o giù di lì mi comportai come se mi piacessero alla follia, e intanto pensavo a cosa avrei potuto fare al nostro cuginetto.