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— Come fa a saperlo?

Orr sospirò. — Se ne accorgerà uscendo. Abbiamo terminato, per questo pomeriggio?

— Io sono pronto a continuare. Paga il governo, lo sa!

— Sono molto stanco.

— Be’, allora d’accordo, per oggi chiudiamo. Senta, che ne direbbe se svolgessimo di notte le sedute terapeutiche? Lei dormirebbe normalmente, e useremmo l’ipnosi soltanto per influire sul contenuto del sogno. Le lascerebbe libere le giornate lavorative, e, per quanto riguarda me, la mia giornata lavorativa, buona parte delle volte, è la notte; se c’è una cosa che i ricercatori sul sonno si concedono raramente, questa è il sonno! Ci permetterebbe di lavorare straordinariamente più in fretta, e le permetterebbe di fare completamente a meno dei farmaci per la soppressione del sogno. È disposto a fare una prova? Che ne direbbe di venerdì notte?

— Ho un appuntamento — si scusò Orr, e fu il primo a sorprendersi della bugia.

— Sabato, allora.

— D’accordo.

E uscì, reggendo sul braccio l’impermeabile umido. Non c’era bisogno di indossarlo. Il sogno kennediano era stato molto efficace. Ne aveva sempre la certezza, quando ne faceva uno. Per quanto blando potesse essere il loro contenuto, Orr, quando si destava da quei sogni, li ricordava con grande chiarezza e si sentiva esaurito e ammaccato, come dopo avere compiuto un enorme sforzo fisico per lottare contro una forza schiacciante, contro un rullo compressore. Per conto suo, la massima frequenza cui era arrivato era un sogno ogni trenta, quarantacinque giorni; era stata la paura di farne, che lo aveva ossessionato. Ora, con l’Aumentore che lo teneva nel sonno onirico, e con le suggestioni ipnotiche che gli comandavano di fare sogni «efficaci», ne aveva fatti tre su quattro in due giorni; anzi, lasciando perdere il sogno delle noci di cocco, che più che altro era stato un brontolio di immagini, per usare le parole di Haber, tre su tre. Era esausto.

Non pioveva. Quando uscì dall’atrio della East Tower Willamette, il cielo marzolino era chiaro e sereno, al di sopra dei canyon stradali. Si era messo a soffiare il vento dell’est: il vento secco del deserto, che di tanto in tanto spirava a rianimare il clima umido, caldo, melanconico, grigio della Valle del Willamette.

L’aria più chiara riuscì a sollevargli leggermente l’umore. Raddrizzò le spalle e si avviò sul marciapiede, cercando di ignorare lo stordimento, che probabilmente era l’effetto combinato della stanchezza, dell’ansia, di due sonnellini a un’ora inconsueta, e di una discesa in ascensore dal 62° piano.

Che il dottore gli avesse ordinato di sognare la fine della pioggia? O gli aveva ordinato di sognare Kennedy (il quale, ora che ci pensava, aveva la barba come Abramo Lincoln)? O di sognare lo stesso Haber? Non c’era modo di dirlo. La parte «efficace» del sogno era quella che aveva fermato la pioggia, era il cambiamento atmosferico; ma ciò non dimostrava niente. Spesso l’elemento «efficace» del sogno non era affatto quello che pareva più importante, o più sorprendente. Orr aveva il sospetto che Kennedy, per motivi che erano chiari solamente alla sua psiche inconscia, fosse un’aggiunta sua, ma non poteva esserne certo.

Entrò nella stazione del metrò di East Broadway insieme con l’infinita moltitudine. Infilò nella macchinetta la moneta da cinque dollari, prese il biglietto e salì sul vagoncino, che presto si immerse nella tenebra al di sotto del fiume.

Il suo capogiro fisico e mentale aumentò.

Passare sotto un fiume: che stranezza, che idea assolutamente balorda.

Attraversarlo su un ponte, passarlo a guado o a nuoto, usare una barca, una zattera, un traghetto, un aereo, risalire il suo corso, farsi trascinare a valle dall’eterna rinascita della corrente: questi, sono modi sensati. Ma l’andare sotto un fiume comporta qualcosa di perverso, nel vero senso etimologico della parola. Nella mente e all’esterno di essa ci sono cammini che, già per il solo fatto di essere così tortuosi, mostrano chiaramente che dobbiamo avere preso da tempo la svolta sbagliata, se ci siamo dentro.

C’erano nove tunnel, tra ferroviari e stradali, sotto il Willamette, sedici ponti che lo attraversavano, quarantacinque chilometri di cemento che ne accompagnavano il corso. Il controllo delle acque, su di esso e sul suo grande affluente, il Columbia, qualche chilometro a valle di Portland, era talmente rigoroso che nessuno dei due fiumi poteva salire di livello per più di venti centimetri, neppure dopo le più prolungate piogge torrenziali. Il Willamette era un utile elemento dell’ambiente, una specie di grande animale da tiro, enorme e docile, impastoiato da un’infinità di cinghie, catene, stanghe, selle, morsi, briglie. Se non fosse stato utile, ovviamente, sarebbe stato ricoperto di cemento, come le centinaia di torrentelli che correvano nell’oscurità sotto le strade e gli edifici cittadini. Ma, senza fiume, Portland non sarebbe stata un porto; le navi, le lunghe file di chiatte, le grandi masse di tronchi dovevano poterlo percorrere. Perciò i camion, i treni e i rari veicoli privati dovevano passare o sopra o sotto il fiume. Al di sopra delle teste di coloro che percorrevano il Broadway Tunnel sulla carrozza della metropolitana c’erano le tonnellate di roccia e pietrisco, le tonnellate di acqua corrente, le armature delle banchine e le chiglie delle navi oceaniche, i grossi piloni di cemento delle autostrade soprelevate e degli svincoli, una fila di camion a vapore carichi di polli di batteria surgelati, un aviogetto a 11.000 metri di quota, le stelle a distanze varie, dai 4,3 anni luce in su. George Orr, pallido nella tremolante luce al neon della vettura ferroviaria immersa nel buio infrafluviale, dondolava appeso all’impugnatura di acciaio di una maniglia, fra mille compagni di viaggio. Avvertiva il peso immane che lo sovrastava, la pressione che continuava eternamente a gravare sul tunnel. Vivo in un incubo, si disse, dal quale mi desto di tanto in tanto per dormire.

Gli urti e le spinte della gente che scendeva alla Union Station fugarono dalla sua mente questa importante considerazione; dovette dedicare tutta la sua attenzione alla difesa della maniglia. Nella sua condizione di malessere temeva che se l’avesse persa e si fosse dovuto affidare totalmente alla forza di affollamento (a), avrebbe vomitato nella vettura.

Il treno ripartì con uno sferragliamento composto in parti uguali da profondi, laceranti raschi e da cigolii acuti e stridenti.

L’intero sistema ferroviario metropolitano di Portland aveva soltanto quindici anni, ma era stato costruito tardi e in fretta, con materiali scadenti, nel corso — e non prima — del crollo dell’economia automobilistica. Anzi, proprio a Detroit erano state costruite le carrozze, e, sia per la durata, sia per il rumore, denunciavano chiaramente la loro origine. Orr, animale urbano e viaggiatore di metrò, non prestava orecchio allo sconvolgente frastuono, sia perché (malgrado i suoi trent’anni) le terminazioni nervose dei suoi organi dell’udito erano già notevolmente ottuse, sia perché quel fracasso non era altro che il normale accompagnamento sonoro dell’incubo. (Una volta consolidato il possesso della maniglia, Orr aveva ripreso il filo dei suoi pensieri.)

A partire da quando, volente o nolente, la cosa l’aveva toccato di persona, il fatto che la mente dimenticasse la maggior parte dei sogni l’aveva molto interessato. Il pensiero non cosciente — sia quello infantile, sia quello del sogno — non era disponibile, a quel che sapeva, alla memoria cosciente. Ma lui, Orr, era inconscio, durante l’ipnosi? Niente affatto: era completamente desto, finché non gli veniva ordinato di dormire. Perché allora non poteva ricordare? La cosa lo preoccupava. Si chiedeva che cosa stesse facendo Haber. Il primo sogno di quel pomeriggio, ad esempio; il dottore si era limitato a ordinargli di sognare ancora una volta il cavallo? E lo sterco di cavallo era quindi una sua aggiunta (il che risultava piuttosto imbarazzante)? Oppure, se era stato il dottore a indicare lo sterco, la cosa era ugualmente imbarazzante, ma in modo diverso. Forse Haber era stato fortunato a non trovarsi sul tappeto un’enorme pila di feci equine marroni e fumanti. Anche se, in un certo senso, era ciò che era accaduto effettivamente: la fotografia della montagna.