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Arrivò alla vecchia casa della Corbett Avenue proprio mentre arrivava a porsi questa domanda.

Scese nel seminterrato per farsi prestare il vecchio fonografo da Mannie Ahrens, il padrone di casa. La cosa comportò come corollario di fermarsi a bere con lui una tazza di «tè». Era una bevanda che Mannie preparava espressamente per lui, perché Orr, che non aveva mai fumato, non riusciva ad aspirare il fumo senza tossire. Parlarono un po’ di come andavano le cose. Mannie aborriva le Manifestazioni Sportive; il pomeriggio rimaneva a casa a guardare le trasmissioni educative per i bambini ancora troppo giovani per entrare nei Centri Infantili. — Quel piccolo coccodrillo, Dooby Doo, è proprio un gran dritto — commentò. C’erano delle grandi lacune nella conversazione di Mannie, riflesso di grandi lacune nel tessuto della sua mente, corrosa dalla somministrazione di innumerevoli composti chimici nel corso degli anni. Ma nel suo disordinato appartamentino c’erano tranquillità e isolamento, e il debole tè di canapa indiana esercitava su Orr un effetto rilassante. Alla fine portò a casa sua il fonografo, e lo collegò a una presa del soggiorno senza mobili. Infilò il disco, e tenne sollevato il braccio dell’apparecchio per un istante. Che cosa desiderava?

Non lo sapeva. Aiuto, probabilmente. Bene: quanto arrivava era accettabile, come diceva Tiua’c Ennebi.

Appoggiò con cura la puntina sul solco e si stese accanto al fonografo, sul pavimento polveroso.

Do you need anybody?

I need somebody to love.

Hai bisogno di qualcuno?

Ho bisogno di qualcuno da amare.

Era un giradischi automatico; quando il disco giunse alla fine, l’apparecchio brontolò un istante, mosse le proprie interiora e riportò la puntina all’inizio del solco.

I get by, with a little help,

With a little help from my friends.

Ce la faccio, con un aiuto,

Con l’aiuto dei miei amici.

Nel corso dell’undicesima replica, Orr cadde addormentato.

Destandosi nella stanza buia, spoglia, dal soffitto alto, Heather rimase sconcertata. Ma dove diavolo?…

Si era addormentata. Addormentata seduta sul pavimento, con le gambe distese e la schiena appoggiata al pianoforte. La marijuana la faceva sempre addormentare, e la faceva sentire stupida, ma non si poteva offendere Mannie rifiutando di prenderla, povero vecchio tossicomane. George era steso sul pavimento come un gatto spellato, accanto al fonografo, la cui puntina stava lentamente scavando With a Little Help e tra un po’ avrebbe cominciato ad aggredire il piatto rotante. Abbassò lentamente il volume, poi spense l’aggeggio. George non si mosse; aveva le labbra un po’ aperte, gli occhi chiusi. Una cosa da ridere: addormentarsi tutt’e due al suono della musica. Si alzò e andò in cucina per vedere cosa ci fosse per pranzo.

Oh, per l’amor di Dio, fegato di maiale. Era nutriente, e, tra ciò che si poteva prendere con tre tagliandi carne, era la cosa che rendeva di più in peso. L’aveva acquistato al Mercato, ieri. Be’, tagliato molto sottile, e soffritto con cipolla e pancetta… puah! Oh, cribbio, basta, aveva una fame sufficiente da indurla a mangiare anche il fegato di maiale, e George non aveva mai fatto storie. Se c’era qualcosa di buono lo mangiava e lo gustava, e se c’era soltanto dello schifoso fegato di maiale lo mangiava e basta. Sia lode al Signore, da cui viene ogni benedizione, compresi i mariti che si accontentano.

Mentre preparava il tavolo e metteva a cuocere due patate e mezzo cavolo, fu costretta a fermarsi di tanto in tanto. Si sentiva strana. Disorientata. Per quella maledetta marijuana, e per essersi addormentata sul pavimento a un’ora inconsueta, senza dubbio.

Arrivò George, tutto scarmigliato e con la camicia sporca di polvere. Prese a fissarla. Lei gli disse: — Oh. Buon giorno!

George rimase fermo a fissarla e a sorridere: un sorriso aperto e raggiante, di pura gioia. Lei non aveva mai ricevuto un complimento simile in tutta la vita; era imbarazzata da quella gioia, che lei stessa aveva causato. — La mia cara mogliettina — disse George, prendendole le mani. Le fissò, palma e dorso, e se le portò alla faccia. — Dovresti essere scura — disse, e lei, con sgomento, gli vide spuntare delle lacrime di rimpianto. Per un istante, esattamente allora, ebbe coscienza di ciò che era successo; ricordò di essere stata scura, e ricordò il silenzio notturno del villino, il rumore del ruscello e molte altre cose, tutto in un lampo. Ma George era una considerazione più pressante. Lo strinse, com’egli stringeva lei. — Sei esaurito — gli disse, — sei scosso, ti sei addormentato per terra. È quel maledetto Haber. Non tornare più da lui. Non tornarci più, e basta. Non m’interessa sapere cosa fa; voglio mandarlo in tribunale, anche se dovesse appiopparti un’ingiunzione di Controllo Coercitivo e ti ficcasse al Linnton: troverò un altro psichiatra e riuscirò a farti uscire. Non puoi continuare con lui, ti sta distruggendo.

— Nessuno può distruggermi — disse lui, e rise piano, nel profondo del petto; quasi un sospiro. — Almeno, non può distruggermi finché avrò l’aiuto dei miei amici. Ritornerò da lui: ha quasi finito. Non mi preoccupo più di me, ormai. Ma tu non devi preoccuparti… — Rimasero stretti l’uno all’altra, in contatto con tutte le superfici disponibili, assolutamente unificati, mentre il fegato e le cipolle sfrigolavano nella padella. — Anch’io mi sono addormentata — gli disse, parlandogli nel collo, — mi è venuto sonno a forza di scrivere quelle lettere sceme del vecchio Rutt. Ma il disco che hai comprato mi piaceva molto. Andavo pazza per i Beatles, quando ero ragazzina, e oggi le stazioni governative non li suonano più.

— Era un regalo — disse George, ma il fegato nella padella cominciò a rumoreggiare, e Heather dovette sciogliersi per andare a vedere. A cena, George continuò a osservarla; anche lei continuò a osservarlo. Erano sposati da sette mesi. Si scambiarono soltanto qualche frase di poca importanza. Lavarono i piatti e andarono a letto. A letto fecero l’amore. L’amore non è una cosa che è lì e si limita a stare lì ferma, come una pietra: è una cosa che deve venire fatta, come il pane; rifatta ogni volta, rifatta nuova. Quando l’ebbero fatto, rimasero l’uno nelle braccia dell’altra, tenendo stretto l’amore, addormentati. Nel sonno, Heather udì il fruscio di un ruscello, pieno dei canti dei bambini non ancora nati.

Nel sonno, George vide le profondità del mare aperto.

Heather era la segretaria di un vecchio e accidioso sodalizio di avvocati, Ponder e Rutt. Quando uscì dall’ufficio alle quattro e mezza del pomeriggio seguente, venerdì, invece di dirigersi alla monorotaia e poi al tram per tornare a casa, prese la funicolare fino a Washington Park. Aveva detto a George che forse lo avrebbe accompagnato al SURA, visto che la sua seduta terapeutica non cominciava fino alle cinque, e poi sarebbero potuti tornare in città assieme per mangiare a uno dei ristoranti del Centro Programmazione, nell’International Mall. — Andrà tutto bene — le aveva detto George, che aveva capito i suoi motivi e voleva dirle che sarebbe andato tutto bene con Haber. Lei gli rispose: — Lo so. Ma sarebbe bello mangiare fuori, e ho da parte alcuni tagliandi. Non siamo mai stati al Casa Boliviana.

Arrivò al SURA in anticipo, e attese sugli ampi gradini di marmo. George arrivò con la cabina successiva. Lo vide scendere, insieme con altre persone che non osservò. Un uomo ben fatto, non molto alto, con un’aria assai tranquilla e un volto simpatico. Camminava con eleganza, anche se era un po’ curvo, come quelli che lavoravano sempre alla scrivania. Quando la vide, i suoi occhi, che erano chiari e trasparenti, parvero divenire ancora più chiari, ed egli le sorrise: di nuovo quel sorriso da strappare il cuore, un sorriso di gioia completa. Lo amò violentemente. Se Haber gli avesse fatto nuovamente del male, sarebbe entrata lì dentro e lo avrebbe fatto a pezzetti. Di solito i sentimenti violenti le erano alquanto estranei, ma non quando si trattava di George. E, comunque, chissà perché, oggi si sentiva diversa dal solito. Si sentiva più dura, più arrogante. Aveva esclamato «cacca!» due volte, sul lavoro, facendo sobbalzare il vecchio Mr. Rutt. In precedenza non aveva quasi mai esclamato «cacca!» a voce alta, e anche quelle due volte non aveva intenzione di dirlo, eppure lo aveva fatto, come se si fosse trattato di una vecchia abitudine, troppo difficile da abbandonare…