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Non cercò di trovare aiuto per Haber. Per Haber non si poteva fare più niente. E neppure per lui. Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere di fare. Proseguì il suo cammino per le strade sconvolte. Dalle insegne, vide che era nella parte nordest di Portland, una zona che non conosceva. Le case erano basse, e dagli angoli si profilava a volte la montagna. Si accorse che l’eruzione era cessata; in effetti non era mai cominciata. Il Monte Hood si ergeva violaceo nel cielo d’aprile sempre più scuro, ed era spento. La montagna dormiva.

E sognava.

Orr continuò a camminare senza meta, seguendo prima una strada e poi un’altra; era esausto, e a volte provava la tentazione di stendersi per terra e di riposare per un po’, ma continuò ugualmente ad andare avanti. Ora si stava avvicinando a un quartiere commerciale, nei pressi del fiume. Nella città, semidistrutta e semitrasformata, miscuglio di piani grandiosi e di ricordi incompleti, la gente formicolava come impazzita; il fuoco e la follia si propagavano da una casa all’altra. Eppure c’era anche qualcuno che badava come sempre alle proprie faccende: laggiù c’erano due uomini che saccheggiavano una gioielleria, e dietro di loro veniva una donna che, con in braccio il figlio urlante e congestionato in viso, si dirigeva coscienziosamente verso casa.

Dovunque fosse «casa».

CAPITOLO UNDICESIMO

Luce di Stella chiese a Non-Entità: «Maestro, tu esisti? o tu non esisti?». La sua domanda, però, non ebbe risposta…

Chuang-Tse: XXII

A un certo momento della notte, mentre cercava il modo di raggiungere la Corbett Avenue tra il caos della periferia, Orr venne fermato da un Alieno aldebaraniano che lo convinse a seguirlo. E Orr lo seguì, docilmente. Dopo un poco, gli chiese se era Tiua’c Ennebi; ma glielo chiese senza molta convinzione, e non parve dispiaciuto quando l’Alieno gli spiegò, piuttosto laboriosamente, che il suo nome era Gior Gior, e che lui (o esso?) si chiamava E’nememen Asfah.

Lo portò al suo appartamento nei pressi del fiume, al di sopra di un’officina per la riparazione di biciclette e a porta a porta con la Chiesa Evangelica dell’Eterna Speranza, che quella sera era notevolmente affollata. In tutto il mondo veniva chiesta alle varie divinità, in termini più o meno educati, la spiegazione di ciò che era successo tra le 18 e 25 e le 19 e 08, Ora Media della Costa Occidentale. Dolcemente discordante, una musica Rock suonava sotto i loro piedi mentre salivano le scale buie e giungevano all’appartamento del primo piano. Lì giunti, l’Alieno gli consigliò di stendersi sul letto, perché aveva un aspetto stanco. — Sonno che ricuce la manica sfilacciata dell’attenzione — disse.

— Dormire, forse sognare; sì, questo è il problema — rispose Orr. La strana maniera in cui gli Alieni comunicavano, si disse, ha una sua profondità; ma era troppo stanco per analizzarla. — Dove dorme, lei? — chiese, lasciandosi cadere pesantemente sul letto.

— Nessun posto — rispose l’Alieno. La sua voce senza intonazione lasciava aperti ogni sorta di significati.

Orr si piegò per slacciarsi le scarpe. Non voleva sporcare di fango la coperta dell’Alieno, che era così gentile con lui. Piegandosi, provò un senso di stordimento. — Sono stanco — disse. — Oggi ho fatto molte cose. Cioè, ho fatto una sola cosa. L’unica cosa che io abbia mai fatto. Ho premuto un pulsante. C’è voluta tutta la mia forza di volontà, la somma di tutta la forza di volontà della mia esistenza, per schiacciare quel maledetto pulsante di SPENTO. — Voi avete vissuto bene — disse l’Alieno.

Era fermo in un angolo, in piedi, e pareva intenzionato a rimanere lì eternamente.

Non era lì, pensò Orr: almeno, non era lì nel modo in cui lui, Orr, sarebbe potuto stare lì in piedi, o sedere, o giacere sdraiato, o esistere. Era lì come sarebbe potuto esserci lui in un sogno. Era lì nel senso che, sognando, siamo in qualche punto del sogno.

Si sdraiò. Avvertiva chiaramente la pietà, la compassione, il desiderio di proteggerlo di quell’Alieno, fermo nell’angolo oscuro. L’Alieno, non con gli occhi, vedeva in lui una creatura dalla vita breve, una creatura di carne, senza armatura; una creatura strana, infinitamente vulnerabile, vagante alla deriva tra i golfi del possibile: una creatura bisognosa di aiuto. E questo, a Orr, non dispiaceva. Egli aveva veramente bisogno di aiuto. La stanchezza lo vinse, lo raccolse come se fosse stata una corrente di quel mare in cui stava lentamente affondando. — Er’ perrehnne — mormorò, cedendo al sonno.

— Er’ perrehnne — rispose E’nememen Asfah, senza parlare.

Orr dormì. Sognò. Non era un problema. Come onde del mare aperto, lontano da ogni costa, i suoi sogni andavano e venivano, si alzavano e cadevano, profondi e innocui, senza infrangere nulla, senza cambiare nulla. Danzarono la danza comune di ogni altra onda del mare dell’esistenza. E nel suo sogno si tuffavano le grandi, verdi testuggini, che nuotavano con grazia pesante e inesauribile nelle profondità, nel loro elemento.

All’inizio di giugno gli alberi avevano rimesso tutte le foglie, e le rose sbocciavano. In tutta la città la loro varietà grande, di gusto fuori moda, robusta come gramigna, chiamata Rosa Portland, fioriva carminia sugli steli spinosi. Le cose si erano messe sufficientemente a posto. L’economia riprendeva. La gente falciava di nuovo l’erba.

Orr era andato all’Ospedale Federale per Malati Mentali di Linnton, un po’ a nord di Portland. Gli edifici, costruiti poco dopo il 1980, sorgevano in cima a una grande altura che si affacciava sulla distesa del Willamette e sulla gotica eleganza del Ponte St. John. Erano stati spaventosamente affollati alla fine di aprile e per tutto il mese di maggio, per l’epidemia di esaurimenti nervosi che aveva seguito gli inesplicabili avvenimenti che ora venivano chiamati «La Frattura»; ma anche questo era passato, e l’attività dell’istituto era ritornata alla sua terribile normalità di poco personale e troppi pazienti.

Un infermiere alto e dalla voce pacata accompagnò Orr al piano superiore, alle stanze singole della corsia nord. La porta d’ingresso di quest’ala dell’istituto, e le porte delle stanze, erano massicce, avevano uno spioncino con una grata, all’altezza di un metro e mezzo, ed erano chiuse a chiave.

— Non che sia pericoloso — disse l’infermiere, mentre apriva la porta del corridoio. — Non ha mai dato segni di violenza. Ma destava una brutta reazione negli altri. Abbiamo provato a metterlo in due corsie. Niente da fare. Gli altri avevano paura di lui. Mai visto una cosa simile. Tutti i pazienti si influenzano a vicenda e si fanno prendere da paure e passano le notti in agitazione, ma non così. Avevano paura di lui. Picchiavano alla porta, di notte, per allontanarsi da lui. E lui non aveva fatto niente: si limitava a rimanere sdraiato sul letto. Be’, penso che chi lavora qui dentro, prima o poi, finisca per vederle tutte. Ma per lui non ha importanza dove sta, credo. Ci siamo. — Aprì la porta e precedette Orr. — Visite, Dottor Haber — disse.

Haber era dimagrito. Il pigiama azzurro e bianco gli stava largo. Barba e capelli erano corti, ma erano puliti e curati. Era seduto sul letto e fissava il vuoto.

— Dottor Haber — disse Orr, ma gli mancò la voce; provò una grande pietà, e anche paura. Sapeva cosa fissava lo sguardo di Haber. L’aveva visto anche lui. Fissava il mondo successivo all’aprile 1988. Fissava il mondo di una mente che non lo comprendeva: il brutto sogno.

C’è un uccello, in una poesia di T.S. Eliot, che afferma che l’umanità non può sopportare una dose molto forte di realtà; ma quell’uccello sbaglia. Un uomo può sopportare per ottant’anni l’intero peso dell’universo. È l’irrealtà, ciò che non riesce a sopportare.

Haber si era perduto. Aveva perso contatto.

Orr cercò di parlare ancora, ma non trovò parole. Indietreggiò, e l’infermiere, che gli stava al fianco, chiuse la porta a chiave.

— Non posso — disse Orr. — Non si può.

— Già, non si può — convenne l’infermiere.

Mentre percorrevano il corridoio, aggiunse ancora, con la sua voce pacata: — Il dottor Walters mi diceva che era uno scienziato molto promettente.