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Ancora una volta cominciò il conto alla rovescia: «Dieci. Nove. Otto. Sette. Sei. Cinque. Quattro. Tre. Due. Uno. Zero.»

Questa volta vide tutto. Il varco si aprì come un cerchio di fuoco blu che si dilatava. Sentì di nuovo la folata d'aria irrompere nella stanza, e il robot, come sull'orlo di un precipizio, vacillò e scomparve nel nulla.

Si volsero all'unisono a guardare il monitor. Ancora una volta sembrava che non arrivasse alcun segnale, ma poi i raggi di luce dovettero cogliere qualcosa — vetro o plastica — perché per un attimo percepirono un riflesso. Ma non videro altro; lo spazio dove il robot dondolava come un pendolo nel vuoto doveva essere immenso.

Poi le luci illuminarono qualcos'altro: sembravano dei tubi di metallo incrociati, ma l'immagine andava e veniva, probabilmente a causa dell'oscillazione del robot.

E improvvisamente un bagliore accecante, come se…

«Qualcuno deve aver acceso le luci» disse Jasmel.

Adesso era chiaro che il robot ruotava attorno al cavo. Dal monitor colsero delle apparizioni fuggevoli di mura rocciose, e…

«Cos'è quella?» fece Jasmel.

L'avevano appena intravista: una specie di scala sulla parete incurvata di un'ampia caverna, ai cui piedi c'era una figura minuta vestita di blu.

Il robot continuava a mulinare attorno al cavo; videro una griglia geodesica sul pavimento, e nei punti di intersezione c'era qualcosa a forma di fiore.

«Non ho mai visto niente di simile» disse Dern.

«È bellissima» osservò Jasmel.

Adikor trattenne il fiato. Tutto continuava a roteare: apparve di nuovo la scala, con due figure che scendevano e che poi scomparvero a causa di quell'esasperante rotazione.

Videro altre due fuggevoli apparizioni di quelle sagome vestite in blu con dei luminosi caschi gialli sulla testa. Avevano le spalle troppo minute per essere degli uomini; Adikor pensò che fossero donne, ma erano comunque troppo esili. Le teste, che avevano appena intravisto, sembravano non avere capelli, e…

L'immagine ebbe un ultimo sussulto, poi si stabilizzò: il robot aveva smesso di roteare. Una mano l'aveva afferrato. La videro in primo piano: una mano strana, fragile d'aspetto, con il pollice corto e una specie di cerchio di metallo attorno a un dito. Era chiaro che stava stringendo il robot, tenendolo fermo. Dern maneggiava freneticamente la scatola di controllo per inclinare la telecamera verso il basso, e quando ci riuscì videro per la prima volta con chiarezza il volto dell'essere che aveva afferrato il robot.

Dern restò senza fiato; Adikor sentì un colpo nello stomaco. Era una creatura spaventosa, deforme, con la mandibola inferiore che fuoriusciva come se l'osso avesse delle escrescenze.

L'essere ripugnante stava cercando di tirare giù il robot, che pendeva a poche decine di centimetri dal pavimento del vasto ambiente.

Il robot oscillò per un attimo, e le telecamere svelarono un'apertura alla base della sfera geodesica, come se fosse stata parzialmente smontata. Sul pavimento giacevano enormi pezzi ricurvi di vetro o di plastica trasparente, ammassati l'uno sull'altro; probabilmente era per questo che la luce del robot aveva mandato dei riflessi. Montati, avrebbero formato una sfera gigantesca.

Adesso vedevano a intermittenza tre di quegli strani esseri, tutti deformi, due dei quali senza peluria sul viso. Uno di loro stava indicando il robot, il braccio simile a un ramoscello.

Jasmel mise le mani sui fianchi, e muovendo lievemente il capo avanti e indietro chiese: «Che cosa sono?»

Adikor scosse la testa sbalordito.

«Sono una specie di scimpanzé?» ipotizzò la ragazza.

«No, non credo siano scimpanzé o babbuini» disse Dern.

«Infatti,» convenne Adikor «anche se sono magri come loro. Ma non hanno i peli. Sembrano più simili a noi che alle scimmie.»

«Peccato che indossino quegli strani copricapi. Mi chiedo a cosa servano» disse Dern.

«Forse per protezione» suggerì Adikor.

«Be', se così fosse non sembrano molto utili» commentò Dern. «Se dovesse cadergli qualcosa sulla testa, sarebbe il collo e non le spalle a sopportarne il peso.»

«Non c'è traccia di mio padre» disse tristemente Jasmel.

Rimasero in silenzio per un po'. poi la ragazza aggiunse: «Lo sapete a chi assomigliano? Agli esseri umani primitivi, come quei fossili conservati nel palazzo di galdarb.»

Quelle parole fecero letteralmente vacillare Adikor, che mosse un paio di passi indietro. Prese una sedia, la girò e vi si accasciò.

«Sono dei Gliksin» annunciò, ricordando la parola. Gliksin era la regione dove erano stati rinvenuti i fossili di quei primati, gli unici che non presentavano la fronte sporgente e che avevano quelle ridicole prominenze che partivano dalla mandibola inferiore.

Era possibile che il loro esperimento li avesse portati ad oltrepassare i confini del mondo, accedendo a un universo che si era separato dal loro molto prima dell'invenzione del computer quantistico? No, non era possibile. Adikor scosse il capo. Una simile eventualità era semplicemente pazzesca. D'altra parte, i Gliksin erano estinti da… forse da mezzo milione di mesi, ma di questo non era sicuro. Si passò la mano sulla fronte, sempre più perplesso. L'unico suono nella stanza era il ronzio dei filtri dell'aria; il solo odore, il sudore e i feromoni.

«Ma è una cosa enorme» sussurrò Dern. «Gigantesca.»

Adikor annuì lentamente. «Un'altra versione della Terra. Un'altra versione di umanità.»

«Sta parlando!» esclamò Jasmel all'improvviso indicando una delle figure sullo schermo. «Alza il volume.»

Dern lo alzò. «È un vero e proprio linguaggio» disse Adikor scuotendo la testa sbalordito. «Avevo letto da qualche parte che i Gliksin non erano in grado di parlare perché avevano la lingua troppo corta.»

Ascoltarono in silenzio, anche se le parole non avevano senso.

«È così strano» disse Jasmel. «Non ho mai sentito una cosa simile.»

Il Gliksin in primo piano aveva smesso di tirare giù il robot, essendosi reso conto che il cavo a cui era attaccato era terminato. Si allontanò per far posto ad altri Gliksin. Adikor non si era subito reso conto che c'erano anche delle femmine, anch'esse senza peli sul viso, anche se aveva notato qualche maschio con la barba. Sembravano più piccole, e in alcune, sotto i panni che indossavano, si notavano le mammelle.

Jasmel si voltò a guardare il pavimento della sala dei registri. «Il varco non si è richiuso. Chissà per quanto rimarrà aperto.»

Adikor si stava chiedendo la stessa cosa. La prova che avrebbe salvato lui, il figlio Dab e sua sorella Kelon era lì davanti: un mondo alternativo! Doveva filmarlo, ma Daklar Bolbay avrebbe sicuramente sostenuto che quelle immagini erano false, una sofisticata elaborazione digitale. Dopo tutto, avrebbe detto, Adikor disponeva dei computer più all'avanguardia di tutto il pianeta.

Ma se il robot avesse portato qualcosa da quel mondo, una qualsiasi cosa! Un oggetto lavorato, o forse…

I Gliksin erano in tumulto. Sembrava trattarsi di una caverna a forma di botte, alta forse quìndici volte un individuo di statura imponente, direttamente ricavata dalla roccia.

«Devono essere un gruppo numeroso, eh?» disse Jasmel. «Ci sono esemplari dal colore della pelle diverso, e… guarda quella femmina lì! Ha i capelli arancioni, come un orangutango!»

«Guarda, uno di loro sta scappando» disse Dern indicandolo.

«Già» fece Adikor. «Mi chiedo dove stia andando.»

«Ponter! Ponter!»

L'uomo alzò lo sguardo. Era seduto a un tavolo nel refettorio dell'università Laurenziana, insieme a due ricercatori del dipartimento di fisica. Mentre mangiavano, stavano annotando una mappa dei più grandi centri di fisica del mondo, dal CERN all'Osservatorio vaticano, dal Fermilab al giapponese Super Kamiokande, l'altro grande rilevatore di neutrini, che di recente era rimasto danneggiato a causa di un incidente. A qualche metro di distanza, un centinaio di studenti seguivano la scena affascinati.