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«Ponter!» gridò di nuovo Mary Vaughan, stremata, finendo quasi sul tavolo. «Vieni immediatamente!»

Ponter e i due fisici si alzarono dal tavolo. «Cosa succede?» chiese uno dei due.

Mary li ignorò. «Corri!» disse in un rantolo. «Corri.»

Gli prese la mano e cominciarono a correre. Mary aveva già il fiatone, perché dopo aver preso la telefonata dall'Osservatorio di Sudbury aveva fatto di corsa la strada dal laboratorio, situato in un altro edificio, fino al refettorio.

«Cosa succede?» chiese Ponter.

«Un varco! Un congegno — un robot o qualcosa del genere — è arrivato sino a noi. E il varco è ancora aperto!»

«Dove?»

«Giù nell'osservatorio dei neutrini.» Si portò le mani al petto ballonzolante. Sapeva che Ponter poteva correre molto più velocemente di lei. Senza rallentare, tirò fuori il borsellino, lo aprì e tirò fuori le chiavi della macchina, che offrì a Ponter. Ma l'uomo scosse lievemente la testa. Per un secondo, credette che con quel gesto volesse dirle: non vado senza di te. Ma la ragione era un'altra: Ponter Boddit non aveva mai guidato un'automobile. Continuarono a correre, lui avanti, lei dietro, ma aveva il passo lungo, era più riposato, e…

Si girò a guardarla: era inutile che arrivasse al parcheggio prima di lei. Si fermò, e così fece lei, fissandolo ansiosa.

«Posso?»

Non aveva la più pallida idea di quel che intendesse, ma annuì. Lui allungò le poderose braccia e la sollevò da terra. Gli si aggrappò al collo taurino, mentre Ponter riprendeva a correre, le gambe che spingevano come pistoni contro il pavimento piastrellato. Mary sentiva i muscoli gonfiarsi mentre andava come un treno. Ovunque, i presenti si fermavano a guardare lo spettacolo.

Arrivarono alla pista di bowling; Ponter dava fondo a tutte le sue energie, divorando la strada, il suono dei passi poderosi che risuonava nel corridoio vetrato. Sempre più veloci, passarono i chioschi, il Tim Hortons, e…

In quel momento uno studente entrava dalla porta; spalancò la bocca, ma tenne la porta aperta per farli passare.

Mary guardava dietro le spalle di Ponter; vedeva le zolle d'erba sollevarsi al loro passaggio. Serrò la stretta, reggendosi forte. Ponter conosceva bene la sua automobile; non avrebbe avuto difficoltà a scorgere la Neon rossa nel modesto parcheggio: uno dei vantaggi delle piccole università. Continuò a correre, e Mary sentì chiaramente il passaggio dall'erba all'asfalto del parcheggio.

Dopo qualche metro rallentò e l'adagiò a terra. Dopo quella pazza corsa le girava la testa, ma si costrinse a correre fino alla macchina, la chiavetta elettronica sguainata ad aprire le portiere. Si fiondarono dentro; infilò la chiave nel quadro di avviamento, schiacciò l'acceleratore a tavoletta e sgommarono via sulla strada, lasciandosi alle spalle l'università. Arrivarono a Sudbury in un battibaleno e imboccarono la strada per la miniera. Mary non era abituata a correre — non che fosse possibile, nel traffico di Toronto — ma stava percorrendo la strada sterrata a 120 chilometri all'ora.

Finalmente giunsero alla miniera, sfrecciando davanti al cartello della Inco e ai cancelli di sicurezza, sbandando sul viottolo serpeggiante che conduceva all'edificio dove erano situati gli ascensori. Frenò di botto e l'auto slittò, sollevando del pietrisco. Scesero di corsa, all'unisono.

Adesso Ponter non aveva più bisogno di aspettarla, e il tempo era fondamentale. Chi poteva dire quanto ancora sarebbe rimasto aperto il varco? O anche, chi poteva dire che fosse davvero aperto? La guardò, fece un balzo verso di lei, la strinse in un abbraccio e le disse: «Grazie, grazie di tutto.»

Mary gli si avvinghiò, più forte che poté, ma probabilmente niente in confronto a una donna Neandertal.

Poi lo lasciò andare.

E Ponter volò via.

44

Adikor, Jasmel e Dern, con lo sguardo incollato sui monitor, seguivano la scena che si stava svolgendo a pochi metri… e a una distanza incalcolabile da loro.

«Hanno un aspetto così fragile» disse Jasmel, inarcando il sopracciglio. «Le braccia sembrano dei ramoscelli.»

«Non quella lì. Deve essere incinta» disse Dern indicando la figura.

Adikor socchiuse gli occhi per vedere meglio. «Non è una donna. È un uomo.»

«Con quel pancione?» disse Dern incredulo. «E io che pensavo di essere grasso! Ma quanto mangiano questi Gliksin?»

Adikor scrollò le spalle. Non aveva tempo da perdere in chiacchiere: divorava con lo sguardo ogni particolare, per assorbire quante più informazioni possibili. Un'altra specie di umanità! E persino tecnologicamente avanzata. Incredibile. Oh, quanto avrebbe voluto scambiare con loro nozioni di fisica, biologia, e…

Biologia.

Ecco cosa gli serviva. Molti di loro avevano toccato il robot, quindi dovevano avervi lasciato sopra delle cellule: non sarebbe stato difficile estrarne il DNA. Ecco una prova che il giudice Sard avrebbe accettato! Il DNA dei Gliksin, la prova dell'autenticità delle immagini che stavano registrando. Ma…

Chi poteva dire per quanto tempo ancora il varco sarebbe rimasto aperto, o se sarebbe stato possibile riaprirlo? Comunque, per lo meno lo avrebbero assolto, salvando così la sua famiglia.

«Recupera il robot» disse a Dern.

L'uomo lo guardò stupito. «Cosa? Perché!?»

«Dovremmo trovarci il DNA dei Gliksin. Se si chiude il varco, lo perderemo.»

Dern annuì. Attraversò la sala, raccolse il cavo di fibra ottica e diede uno strattone. Adikor tornò a guardare lo schermo. Il Gliksin più vicino — un esemplare dalla pelle bruna, all'apparenza un maschio — fissò allibito il robot che filava via verso l'alto.

Dern tirò ancora il cavo; il Gliksin bruno adesso si era voltato, evidentemente in cerca di qualcun altro. Urlò qualcosa, poi annuì rispondendo a qualcuno che gli aveva gridato qualcosa di rimando. Afferrò la base del robot, che dondolava nel vuoto ad altezza d'uomo.

Un aitro Gliksin entrò nel campo visivo della telecamera. Era un esemplare più basso, dalla pelle chiara quanto quella di Adikor, con occhi… strani: scuri, seminascosti da palpebre troppo sporgenti.

I due si guardarono; il nuovo venuto scuoteva la testa vigorosamente, ma non rivolto verso il compagno. Guardava dritto nelle lenti di vetro del robot, agitando le braccia, le mani protese a palmi in giù, spingendole avanti e indietro davanti al torace. E continuava a gridare una sola parola: «Aspetta! Aspetta! Aspetta!»

Era chiaro, rifletté Adikor, che anche loro volevano un oggetto che provasse la straordinarietà dell'evento: avrebbero fatto di tutto per non farsi sfuggire il robot. Si voltò di scatto verso Dern urlando: «Tiralo su!»

Mary Vaughan raggiunse Ponter all'estremità dell'edificio dove erano gli ascensori, poco oltre lo spogliatoio dei minatori. Il Neandertal aspettava davanti alla porta chiusa; la cabina poteva trovarsi ovunque. anche a duemiladuecentocinquanta metri al di sotto della superficie. Aveva convinto l'operatore a portarla a quel piano, ma sarebbero comunque passati diversi minuti.

Nessuno dei due aveva alcuna autorità lì nella miniera, dove erano affissi ovunque cartelli con le regole per la sicurezza. La Inco disponeva di un'invidiabile massa documentaria per quanto concerneva la prevenzione degli incidenti. Ponter aveva già indossato gli stivali d'ordinanza e il casco di protezione, cosa che fece anche Mary. Gli si mise accanto, notando il piede che batteva a terra con impazienza.