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Finalmente la cabina giunse al piano, vuota. Entrarono, l'operatore suonò cinque volte il segnalatore acustico: discesa senza fermate intermedie. Sobbalzando, la cabina cominciò finalmente a scendere.

Lì dentro non c'era modo di comunicare con l'esterno, a eccezione di un pulsante che avrebbe segnalato all'operatore eventuali problemi. Durante la folle corsa, Mary aveva parlato pochissimo, in parte perché concentrata alla guida, ma anche perché il cuore correva almeno quanto l'automobile.

Ma adesso…

Aveva a disposizione il tempo che l'ascensore avrebbe impiegato a percorrere due chilometri. Naturalmente, appena si fossero aperte le porte Ponter sarebbe schizzato via, né poteva biasimarlo. Non c'era tempo da perdere, e l'ascensore distava ottocento metri dalla caverna.

Piano dopo piano, Mary vedeva le luci comparire e svanire: uno spettacolo certo affascinante, ma…

Doveva fare in fretta: con ogni probabilità quella era l'ultima possibilità che aveva di parlargli. Se sotto un certo aspetto la discesa sembrava non avesse mai fine, sotto un altro ci sarebbero voluti ore, giorni, forse persino anni per comunicargli tutto quello che sentiva.

Non sapeva da dove cominciare, ma era sicura che se non avesse parlato, se non gli avesse spiegato, non se lo sarebbe mai perdonata. Anche se, a pensarci, non è che Ponter stesse per scomparire in un passato irrecuperabile; dopo tutto stava solo andando dall'altra parte: le dimensioni temporali delle due versioni della Terra erano le stesse. Domani sarebbe stato domani per entrambi, e così il decimo anniversario del loro incontro, anche se i Neandertal avevano un sistema diverso per misurare il tempo. Era comunque sicura che anche lui un giorno avrebbe riflettuto, cercando di dare un senso al coacervo di emozioni provate insieme a lei, si sarebbe stupito e avrebbe provato un velo di tristezza per quello che sarebbe potuto essere e non era stato.

Infine si decise: «Ponter.» Aveva parlato piano: il clangore dell'ascensore gli aveva forse impedito di sentire. Aveva lo sguardo perso oltre la porta della cabina, sulle rocce scure che scorrevano loro davanti mentre affondavano nelle viscere della terra.

«Ponter» chiamò ancora, più forte.

Si voltò a guardarla, inarcando il lungo sopracciglio. Gli sorrise. Si era abituata a quell'espressione eccentrica, che sulle prime la sconcertava. Avevano molte più cose in comune di quante fossero le differenze.

Eppure, ancora adesso, sin dall'inizio e per tutto il tempo che avevano trascorso insieme, c'era stato come un abisso tra loro, causato non tanto dall'appartenere a due specie diverse, quanto più semplicemente dal sesso. E non era soltanto per questo: lui non era genericamente maschio, ma era incredibilmente maschio: muscoloso come Arnold Schwarzenegger, pelosissimo, insieme poderoso, rozzo e goffo.

«Ponter» lo chiamò per la terza volta. «C'è… una cosa che volevo dirti.» Si fermò. Una parte di lei le consigliava di lasciar perdere, di tenere per sé i suoi sentimenti. Del resto, potevano anche trovare già chiuso il varco che si era così magicamente aperto; nel quel caso avrebbe continuato a vederlo ogni giorno dopo aver messo a nudo la sua anima, quell'essenza immateriale che, era convinta, avevano entrambi, anche se per lui non era così.

«Sì?» disse Ponter.

«Entrambi pensavamo che una fatalità irripetibile ti aveva portato in questa versione della Terra, e che saresti rimasto qui per sempre.»

Ponter annuì, scrollando il faccione che annuiva nella semioscurità.

«Pensavamo che non potessi più rivedere Jasmel, Megameg o Adikor» continuò. «E anche se so bene che il tuo cuore appartiene a tutti loro, ora e per sempre, avevo anche pensato che ti fossi rassegnato a vivere qui da noi, su questa Terra.»

Ponter annuì ancora, distogliendo lo sguardo. Forse aveva capito quello che stava per dirgli, e pensava che non ci fosse nulla da aggiungere.

Ma doveva farlo. Doveva fargli capire che non era stata colpa sua, ma di lei.

No, no. Non era così. Non era nemmeno colpa sua, ma di quel mostro senza faccia, quel demonio. Era lui che si era intromesso tra di loro.

«Poco prima che ci conoscessimo, il giorno del tuo arrivo qui a Sudbury, io sono…»

Le mancarono le parole. Sentiva il cuore martellare nel frastuono del montacarichi che affondava nella roccia.

Superarono il livello dei tremilacinquecento metri. Intravide un minatore in una galleria, in attesa di risalire; lo stridente raggio di luce del suo casco saettò nella cabina, scivolando sui loro volti, intrusi in quel luogo.

Ponter aspettava. E lei parlò: «Quella notte, sono stata…»

Avrebbe voluto pronunciare la parola, serenamente, coraggiosamente, ma non le riuscì. «Io… mi hanno fatto del male» disse infine.

Ponter piegò il capo da un lato, perplesso. «Ti hanno ferita? Mi dispiace.»

«No. Voglio dire che… è stato un uomo a farmi del male.» Respirò a fondo. «Sono stata assalita, a York, nel campus dell'università dove lavoro, di sera.» Dettagli inutili che allontanavano la parola che sapeva di dover dire. Abbassò lo sguardo sul pavimento di metallo ricoperto di fango. «Sono stata violentata.»

Hak emise il solito bip. Ebbe il buon senso di farlo suonare forte, per superare il frastuono del montacarichi. Mary ci riprovò. «Sono stata assalita. Sessualmente assalita.»

Anche nel trambusto sentì Ponter fare un gran sospiro. Alzò la testa e ne cercò lo sguardo dorato nella semioscurità. Gli occhi guizzavano in cerca di qualche reazione, cercando di intuire i suoi pensieri.

«Mi dispiace moltissimo» disse Ponter dolcemente.

Non le venne altro da dire che: «Non è stata colpa tua.»

«No» disse Ponter. Adesso era lui a non sapere cosa dire, finché non le chiese: «Ti hanno fatto… molto male?»

«Un po' maltrattata, niente di grave. Ma…»

«Capisco» disse Ponter, che rimase qualche attimo in silenzio prima di chiedere: «Sai chi è stato?»

Mary scosse il capo.

«Sicuramente le autorità hanno visionato il tuo archivio degli alibi e…» Distolse lo sguardo, tornando a fissare la roccia illuminata a intermittenza dalle luci dei piani. «Scusa.» Si fermò di nuovo. «Allora… non verrà punito per quello che ha fatto?» disse ad alta voce, malgrado la delicatezza dell'argomento, in modo che Hak potesse sentire le parole in quel baccano.

Mary percepì la rabbia e l'indignazione dal tono della voce.

Emise un sospiro e annuì mestamente. «È probabile.» Rimase un attimo in silenzio, poi proseguì: «Io… non ne abbiamo mai parlato, ma te lo voglio dire. Forse sto osando troppo. Nel nostro mondo, lo stupro è considerato un crimine molto grave. Non so…»

«Anche nel mio» disse Ponter. «Alcuni animali lo fanno — gli orangutango, per esempio — ma noi siamo esseri umani, non animali. Naturalmente, noi abbiamo l'archivio degli alibi, per cui sono in pochi a farlo, ma quando si verifica una cosa del genere, si viene puniti duramente.»

Rimasero per un po' senza parlare. Ponter aveva il braccio leggermente sollevato, come se avesse intenzione di abbracciarla, di consolarla, ma distolse lo sguardo, con un'espressione sorpresa sul viso, come se avesse visto un corpo estraneo, e lo abbassò.

Mary si trovò ad accarezzargli il braccio muscoloso, delicatamente, esitante. Poi la mano scivolò lungo il braccio, cercò la mano e intrecciò le dita esili con quelle massicce di lui.

«Desidero che tu capisca» gli disse. «Da quando sei qui tra noi si è creata una grande intimità. Abbiamo parlato di tutto, e, be', come ti ho già detto, pensavi che non saresti più tornato a casa, e che avresti costruito una nuova vita qui.» Si fermò. «Non hai mai forzato le cose, non hai mai approfittato della situazione. Credo che tu sia l'unico uomo su questo pianeta con cui posso rimanere da sola senza sentirmi a disagio, ma…»