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Gli ampi battenti listati di ferro degli alloggi degli uomini erano spalancati e il vano era affollato di guerrieri entusiasti per l’arrivo dell’Amyrlin Seat.

«Ehi, meridionale! C’è l’Amyrlin. Venuta per te e per i tuoi amici, immagino. Pace santa, quale onore per te! Di rado l’Amyrlin lascia Tar Valon. Che io ricordi, non è mai venuta nelle Marche di Confine.»

Rand li schivò tutti, con qualche risposta di circostanza. Doveva lavarsi, trovare una camicia pulita: non aveva tempo da perdere in chiacchiere. Gli altri ritennero di capire e lo lasciarono andare. Sapevano solo che lui e i suoi amici viaggiavano in compagnia di una Aes Sedai e che due degli amici erano donne che dovevano recarsi a Tar Valon per l’addestramento; eppure i loro commenti colpirono Rand come pugnalate, come se quegli uomini sapessero che l’Amyrlin era venuta per lui.

Percorse velocemente i corridoi, entrò nel locale che divideva con Mat e Perrin... e rimase a bocca aperta per lo stupore. La stanza, piena di donne in nero e oro, ferveva d’attività. Non era una stanza molto ampia e le finestre, due feritoie alte e strette che davano su di una corte interna, non contribuivano a farla sembrare più spaziosa. Tre letti, su piattaforme a piastrelle nere e bianche, ciascuno con un cassettone ai piedi, tre sedie normali, un portacatino accanto alla porta e un grande armadio occupavano quasi tutto lo spazio. Le otto donne l’affollavano come pesci in un paniere.

Le cameriere diedero a Rand appena un’occhiata e continuarono a togliere dall’armadio i suoi vestiti — e quelli di Mat e di Perrin — per sostituirli con altri nuovi. Il contenuto delle tasche finiva sui cassettoni e gli abiti vecchi erano ammucchiati con noncuranza, come stracci.

«Cosa combinate?» protestò Rand, quando ritrovò la voce. «Quelli sono i miei vestiti!» Una donna sbuffò, infilò il dito nello strappo dell’unica giacca di Rand e la gettò nel mucchio per terra.

Un’altra, dai capelli neri e con un grosso mazzo di chiavi alla cintura, lo guardò. Si trattava di Elansu, shatayan della rocca. Rand la considerava una governante, anche se la casa da lei governata era una roccaforte e decine di cameriere eseguivano i suoi ordini. «Moiraine Sedai ha detto che i tuoi vestiti sono da buttare e lady Amalisa ne ha fatti preparare di nuovi. Stai fuori dai piedi e finiremo prima.» Erano pochi gli uomini che la shatayan non riusciva a far rigare dritto (alcuni dicevano che perfino lord Agelmar faceva come lei voleva) ed era chiaro che non s’aspettava difficoltà da un giovanotto che poteva essere suo figlio.

Rand inghiottì la risposta: non aveva tempo di discutere. L’Amyrlin Seat poteva mandarlo a chiamare da un momento all’altro. «Onore a lady Amalisa per il regalo» riuscì a dire «e onore anche a te, Elansu Shatayan. Ti prego di portare a lady Amalisa le mie parole e riferire che le sono debitore con anima e corpo.» La frase doveva bastare a soddisfare l’amore per il cerimoniale di tutt’e due le donne, tipico degli shienaresi. «Ma ora, con il tuo permesso, vorrei cambiarmi.»

«Bene» rispose Elansu. «Moiraine Sedai ha detto di buttare tutta la roba vecchia, biancheria compresa.» Alcune donne guardarono di sottecchi Rand, ma nessuna si mosse per uscire.

Rand si morsicò l’interno delle guance per soffocare una risata isterica. Nello Shienar, parecchie usanze erano assai diverse da quelle a cui era avvezzo e ad alcune non si sarebbe mai adattato. Aveva preso l’abitudine di fare il bagno nelle ore piccole della notte, quando le ampie vasche piastrellate erano deserte, dopo avere scoperto che in qualsiasi momento una donna poteva entrare nell’acqua con lui. Fosse una sguattera o la stessa lady Amalisa, sorella di lord Agelmar (i bagni erano l’unico luogo dello Shienar in cui non si badava alla condizione sociale), si sarebbe aspettata che lui le strofinasse la schiena, in cambio d’analogo favore, chiedendogli magari se era così rosso in viso perché aveva preso troppo sole. Presto le donne avevano scoperto il vero motivo dei suoi rossori e tutte parevano restarne affascinate.

Rand si schiarì la voce. «Se aspettate fuori, vi passo il resto degli indumenti, lo giuro.»

Una donna ridacchiò e perfino Elansu sorrise, ma annuì e ordinò alle altre di raccogliere i fagotti già preparati. Uscì per ultima e si soffermò sulla soglia per soggiungere: «Anche gli stivali. Moiraine Sedai ha detto proprio tutto.»

Rand aprì bocca per protestare, ma cambiò idea. Gli stivali erano ancora in buone condizioni: li aveva fatti Alwyn al’Van, il ciabattino di Emond’s Field, ed erano morbidi e comodi, Ma se bastava rinunciare agli stivali perché la shatayan uscisse, glieli avrebbe dati subito. «Sì, certo» disse. «Lo giuro.» Spinse l’uscio e la costrinse a uscire.

Appena solo, si lasciò cadere sul letto per togliersi gli stivali, che erano davvero in buone condizioni, un po’ consumati e con qualche crepa nel cuoio, ma ammorbiditi dall’uso; poi si spogliò in fretta, ammucchiò sopra gli stivali gli indumenti e si diede una rapida lavata. L’acqua del catino era fredda: come sempre, negli alloggi degli uomini.

L’armadio aveva tre ante, i cui intagli, nel semplice stile dello Shienar, suggerivano, più che illustrare, una serie di cascate e di laghetti pietrosi. Rand aprì quella centrale e fissò per un momento gli abiti che avevano sostituito i pochi indumenti portati con sé. Una decina di giubbe accollate, di lana finissima e d’ottimo taglio, come ne aveva viste indosso a ricchi mercanti o a signorotti, per la maggior parte ricamate come gli abiti da festa. Per ogni giubba, tre camicie, di lino e di seta, con maniche ampie e polsini stretti. Due mantelli. Due, quando lui per tutta la vita si era arrangiato con uno solo per volta. Un mantello era semplice, di lana spessa, verde scuro; l’altro, blu, con ricami dorati, a forma d’airone, sul colletto rigido... mentre sul petto, a sinistra, dove un lord avrebbe portato l’emblema...

La mano si mosse quasi da sola verso il mantello. Come incerte di quel che avrebbero toccato, le dita sfiorarono il ricamo d’un serpente avvoltolato quasi a formare un cerchio, ma un serpente con quattro zampe e la criniera dorata d’un leone, a scaglie cremisi e oro, con i piedi che terminavano in cinque artigli d’oro. Rand ritrasse la mano, come se si fosse scottato. L’aveva fatto fare Amalisa, o Moiraine? Quanti sapevano che cos’era, che cosa significava? Anche uno solo era già troppo. La maledetta Moiraine cercava di farlo uccidere. Non gli parlava nemmeno, ma gli aveva dato dei vestiti nuovi ed eleganti in cui morire!

Udì bussare e sobbalzò.

«Hai terminato?» disse Elansu, da fuori. «Ti sei tolto tutto? Forse faccio meglio a...» Il pomo della maniglia cigolò.

Rand s’accorse d’essere nudo. «Ho quasi finito» gridò. «Non entrare.» Raccolse in fretta il fagotto, stivali e tutto. «Te li passo io!» Tenendosi nascosto dietro il battente, aprì l’uscio quanto bastava a mettere il fagotto nelle braccia della shatayan. «C’è tutto.»

Elansu cercò di scrutare nella stanza. «Sei sicuro? Moiraine Sedai ha detto ogni cosa. Forse è meglio che dia un’occhiata...»

«È tutto» brontolò Rand. «Lo giuro!» Con la spalla le chiuse in faccia la porta; da fuori provenne una risata.

Borbottando sottovoce, Rand si vestì in fretta: quelle là non ci avrebbero messo molto a trovare una scusa per entrare a tormentarlo. Le brache grigie erano più attillate di quelle a cui era abituato, ma comode, e la camicia, con le maniche a sbuffo, era abbastanza bianca da soddisfare qualsiasi massaia di Emond’s Field nel giorno del bucato. Gli stivali alti al ginocchio gli andavano bene come se li avesse portati da un anno. Rand si augurò che si trattasse del lavoro d’un buon calzolaio, non delle Aes Sedai.

Tutti quegli abiti avrebbero fatto un pacco grosso quanto lui. Eppure si era di nuovo abituato al piacere delle camicie pulite, a non portare le stesse brache un giorno via l’altro, finché per il sudore e per la polvere non diventavano rigide come gli stivali, e poi continuare a portarle. Dal cassettone prese le bisacce da sella e le riempì con quel che ci stava; poi, con riluttanza, allargò sul letto il mantello elegante e vi ammucchiò il resto. Piegato con il pericoloso emblema all’interno e legato con una cordicella in modo da appenderlo in spalla, non era molto diverso dai fagotti dei comuni viandanti.