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“No” rispose Sybel. “Ti ho chiamato perché ero in collera, ma adesso non lo sono più. Non bisogna fargli del male.”

“È un uomo” osservò Gyld. “Ed è armato.”

“Non toccarlo.”

Sybel si volse verso Coren, che in quel momento era ancora intento a fissare il Drago. Sentendosi ignorato, Tamlorn si divincolava e piangeva fra le sue braccia. Sybel all’improvviso sorrise.

— Voi conoscete il mio Drago! — esclamò.

— Il suo nome non è così antico da essere stato dimenticato dagli uomini — rispose Coren. — Ci fu una volta un Principe di Eldwold che partì con ricchi doni da portare al di là del Monte, a un signore del Sud, da cui voleva uomini e armi. Di quel Principe non furono mai più ritrovati né il tesoro né le ossa. E si parla ancora del fuoco che scendeva su Mondor dal cielo d’estate, delle messi bruciate, del Fiume Slinoon che fumava nel suo letto.

— Adesso, il Drago è vecchio e stanco — disse Sybel. — Quel tempo è ormai passato. Io possiedo il suo nome, e lui non può liberarsi da me e tornare a fare le cose che voi dite.

Alla fine, Coren si decise a cambiare posizione a Tamlorn, e il bambino si acquietò. Gli scuri segni di stanchezza gli erano scomparsi dalla faccia, che per un momento parve solo quella di un uomo molto giovane e perplesso. L’uomo abbassò lo sguardo su Sybel.

— I vostri animali sono bellissimi — disse. — Davvero.

La fissò ancora per un istante, prima di riprendere a parlare.

— Devo andare — disse. — A Mondor saranno giunte le prime notizie della battaglia. Mi tormenta l’idea che i miei fratelli siano morti e che io non lo sappia ancora.

“Accettate di prendere con voi Tamlorn? Qui sarà certamente al sicuro, con simili guardiani! Lo amerete? Questo… questo è ciò che soprattutto gli occorre.”

Sybel annuì, senza parlare. Goffamente prese in braccio il piccino, che, incuriosito, cominciò a tirarle i lunghi capelli.

— Ma… — chiese lei — come sapete tutte queste cose? Come sapete il mio nome?

— Oh — rispose Coren. — Ho chiesto informazioni a una vecchia che abita lungo la strada, qui sotto di voi. È stata lei a darmi il vostro nome.

— Non conosco nessuna vecchia — disse Sybel.

Coren sorrise, ripensando all’episodio.

— Dovreste conoscerla — disse. — Credo che… se avrete bisogno di qualche consiglio per allevare Tamlorn, quella donna sia in grado di darvelo.

S’interruppe, per fissare il bambino. Gli sfiorò la guancia morbida e tonda, e dalle labbra gli scomparve il sorriso: sul viso gli rimase soltanto un’espressione di tristezza sorda, di stupore.

— Addio. Grazie — mormorò, voltandosi.

Lei lo seguì fino al cancello.

— Addio — gli disse da dietro le sbarre mentre lui si accingeva a montare in sella. — Non conosco la guerra, ma so cosa sia la tristezza. Ed è la sola cosa, penso, che vi state passando l’un l’altro, nella Piana di Terbrec.

Lui, con un piede già nella staffa, si voltò a guardarla.

— È vero — disse. — Lo so.

Quando si allontanò dal cancello per rientrare in casa, Sybel vide luccicare gli occhi piccoli e tondi, color della brace, del Cinghiale Cyrin. Sentì anche agitarsi, tutt’intorno a lei, la mente degli altri animali, e con uno sforzo li costrinse a tacere.

“Adesso” disse loro “potete andarvene. Mi spiace di avervi svegliato, ma ero irritata.”

Il Cinghiale Cyrin, però, non si mosse.

“Non puoi dare l’amore” le disse “se prima non l’hai avuto”.

“Bell’aiuto mi dai” gli rispose Sybel con irritazione. Il grande Cinghiale emise un breve sbuffo che per lui era l’equivalente di una risata.

“Quella vecchia” spiegò a Sybel “ha scavalcato una volta il muro di cinta per cercare delle erbe. Io le ho sbuffato contro, e lei ha sbuffato contro di me. Potrebbe davvero aiutarti. Cosa sei disposta a darmi in cambio di tutta la saggezza del mondo?”

“Niente” rispose Sybel “perché in questo momento non mi serve. Dalla a Coren del Sirle, che dice che ho il cuore di ghiaccio.”

Il Cinghiale Coryn sbuffò di nuovo, ma piano.

“Davvero” scherzò “gli servirebbe un po’ di saggezza”.

“È quanto gli ho detto anch’io” rispose Sybel.

Il mattino dopo, Sybel lasciò la casa bianca e discese lungo il sentiero che portava alla più vicina città. I grandi, antichi pini ondeggiavano al vento, cigolando e gemendo all’approssimarsi dell’inverno. Sotto i suoi piedi nudi, i loro aghi erano morbidi e freddi, rallegrati qua e là da un obliquo raggio di sole.

In una bianca e soffice coperta di lana, Sybel portava con sé Tamlorn addormentato. Lo sentiva tiepido e dolcemente pesante tra le sue braccia, morbido e profumato dopo il bagno. Una sola volta lei si fermò: per strofinare il naso contro i suoi morbidi capelli chiarissimi.

— Tamlorn — sussurrò. — Il mio Tamlorn.

Scorse infine una piccola casa in mezzo agli alberi, con il camino che fumava. Sul tetto sonnecchiava un gatto grigio, raggomitolato su se stesso; su un paio di grandi corna di cervo sopra la porta era appollaiato un corvo dalle penne nerissime.

Alcune tortore che tubavano e becchettavano nel cortile si levarono in volo quando lei imboccò il sentiero che conduceva alla porta. Il corvo la guardò di lato, aprendo soltanto un occhio, e gracchiò un’unica volta, come per rivolgerle una domanda: “Chi è qua?”

Senza curarsi di lui, Sybel spalancò la porta. Poi s’immobilizzò sulla soglia, perché all’interno non c’era pavimento, ma solo una nebbia insondabile, inquieta, che le scorreva attorno ai piedi.

Si guardò attorno, perplessa, e vide che le pareti della casa le restituivano l’occhiata: avevano gli occhi, e la bocca scura e tonda. La porta le sfuggì di mano, le si chiuse alle spalle e la nebbia scivolò verso l’alto: prima si addensò attorno agli occhi cauti e attenti delle pareti, poi li coprì del tutto, fino a nascondere anche le travi del tetto. A quel punto il corvo uscì dalla nebbia per volare fino a lei e ripeterle la domanda: “Chi è qua?”

Tra le braccia di Sybel, Tamlorn prese ad agitarsi ed emise un vagito. Lei, sovrappensiero, lo baciò. Poi chiese, rivolta a quella casa strana e guardinga:

— Chi è la padrona di questo focolare?

La nebbia si diradò fino a sparire del tutto; le facce attente si ridussero a semplici nodi delle assi di pino che costituivano le pareti. Sybel scorse una vecchia alta e magra, con indosso una vestaglia color delle foglie, la faccia incorniciata di capelli bianchi, ricci e spettinati.

La vecchia si alzò dalla sedia a dondolo su cui riposava e batté le mani. Sybel notò che aveva le dita praticamente nascoste da grandi anelli, con gemme vistose.

— Un bambino! — esclamò allegramente la vecchia.

Prese Tamlorn dalle braccia di Sybel e gli rivolse dei suoni simili a quelli delle sue tortore. Il bimbo la fissò con attenzione e allungò improvvisamente la mano, per afferrarle il lungo naso. Poi sorrise, mostrando le gengive sdentate, quando lei se lo strinse al petto.

A quel punto la vecchia volse finalmente lo sguardo verso Sybel, fissandola con due occhi grigi come l’acciaio, più affilati della spada di un Re.

— Tu — disse.

— Io — rispose Sybel. — Ho bisogno dei vostri consigli, se sarete così gentile da darmeli.

— Con il Cinghiale Cyrin e il Leone Gules a consigliarti, bambina, tu vieni proprio da me? Oh, hai davvero dei bei capelli, lo sai? Così lunghi e fini… Non te l’ha mai detto nessun uomo?

— Al Cinghiale Cyrin e al Leone Gules nessuno ha mai affidato un bambino in fasce — disse Sybel. — Io devo provvedere a lui e il bambino non è in grado di farmi sapere i suoi bisogni. Cyrin mi ha detto che voi potreste aiutarmi, visto che gli avete restituito uno sbuffo. A volte, Cyrin è davvero incomprensibile. Ma, voi, potete aiutarmi?