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— Il Ghiaccio di Gobrin ci ha sputati dalla sua bocca — dissi.

Il giorno dopo, la curva verso est della linea costiera fu evidente, direttamente davanti a noi. Alla nostra destra c'era Orgoreyn, ma quella curva azzurra, davanti a noi, era Karhide.

In quel giorno consumammo i nostri ultimi grani di Orsh, e le ultime riserve, pochi grammi, di kadik; ci erano rimaste, ormai, due libbre a testa di gichy-michy, e sei once di zucchero.

Non riesco a descrivere molto bene quegli ultimi giorni del nostro viaggio, me ne accorgo ora, perché non riesco realmente a ricordarli. La fame può affinare la percezione, ma non quando essa è combinata all'estrema stanchezza; suppongo che tutti i miei sensi fossero intorpiditi, plumbei, carichi di quella stanchezza accumulata nei lunghi giorni del viaggio. Ricordo di avere sofferto di crampi allo stomaco, i crampi della fame, ma il ricordo non è associato al dolore, i miei sensi non riuscivano a trasmettermelo, probabilmente. Avevo, mi sembra di ricordare, una sensazione vaga, continuamente, un senso di liberazione, di avere superato qualcosa, di gioia; e inoltre, la sensazione di avere un sonno tremendo, schiacciante, insopportabile, quasi. Raggiungemmo la terra il dodici, Posthe Anner, e ci inerpicammo su una spiaggia ghiacciata, addentrandoci poi nella desolazione rocciosa e nevosa della Costa di Guthen.

Eravamo in Karhide. Avevamo raggiunto la nostra destinazione. Poco mancò che non si trattasse di una vittoria inutile, perché i nostri zaini erano vuoti.

Per celebrare il nostro arrivo il nostro festino fu solo a base di acqua bollente. Il mattino dopo ci alzammo e andammo alla ricerca di una strada, di un centro abitato, di qualcosa. Si trattava di una regione desolata, e non ne possedevamo una mappa. Le strade potevano essere sotto due o tre metri di neve, se ne esistevano, e forse ne attraversammo diverse, senza neppure accorgercene. Non c'era alcun segno di coltivazioni. Quel giorno ci spingemmo a sud-ovest, alla cieca, e lo stesso il giorno dopo, e alla sera del giorno dopo, vedendo una luce ardere su una lontana collina, attraverso le ombre del crepuscolo e la neve che cadeva, sottile e rada, nessuno di noi riuscì a dire qualcosa, per qualche tempo. Restammo fermi, a guardare. Finalmente il mio compagno disse, raucamente:

— È una luce, quella?

La notte era caduta già da molto tempo, quando finalmente giungemmo, barcollando, quasi cadendo, in un villaggio karhidi, una strada tra case nere, dal tetto alto, la neve pressata e accumulata fino alle porte invernali. Ci fermammo alla locanda, attraverso le finestre strette della quale usciva, in fessure e raggi e frecce, la luce gialla che avevamo visto tra le colline bianche d'inverno. Aprimmo la porta, ed entrammo.

Era Odsordny Anner, l'ottantunesimo giorno del nostro viaggio; avevamo undici giorni di ritardo sul programma di Estraven. Lui aveva calcolato con esattezza le nostre provviste di cibo; settantotto giorni, al massimo. Avevamo percorso 840 miglia, la misurazione della slitta più una supposizione per quegli ultimi giorni, dopo l'abbandono della slitta. Molte di queste miglia erano state perdute rifacendo la strada già percorsa, e se avessimo avuto realmente ottocento miglia da coprire, non ce l'avremmo mai fatta; quando finalmente avemmo una buona mappa, calcolammo che la distanza tra la Fattoria Pulefen e questo villaggio era meno di 730 miglia. Tutte quelle miglia, e tutti quei giorni, erano stati di desolazione, attraverso bianche distese senza case, senza una parola umana: roccia, ghiaccio, cielo, e silenzio: niente altro, per ottantuno giorni, se non la compagnia l'uno dell'altro.

Ed entrammo in una grande sala, illuminata vividamente, bollente e fumante, piena di cibo e degli odori del cibo, e di persone e delle voci delle persone. Io mi aggrappai alla spalla di Estraven. Volti stranieri si girarono verso di noi, occhi stranieri, volti strani e occhi strani. Avevo dimenticato che esistesse qualcuno, tra i vivi, che non avesse l'aspetto e i lineamenti di Estraven. Fui preso dal terrore.

In realtà, si trattava di una stanzetta piuttosto piccola, e la folla di stranieri che vi si trovava era composta da sette od otto persone, le quali certamente erano rimaste sorprese, e spaventate quanto me, almeno per un poco. Nessuno viene nel Dominio di Kurkurast in pieno inverno, dal nord, di notte. Ci guardarono, attoniti, e socchiusero gli occhi, ansiosi, e tutte le voci tacevano, e c'era silenzio.

Estraven parlò, un mormorio appena udibile.

— Domandiamo l'ospitalità del Dominio.

Rumore, brusio, confusione, allarme, benvenuto.

— Siamo venuti attraverso il Ghiaccio di Gobrin.

Ancor più rumore, voci, domande; si affollarono intorno a noi.

— Volete aiutare il mio amico?

Mi era parso di averlo detto io, ma era stato Estraven, invece. Qualcuno mi aiutava a sedere. Ci portarono del cibo; ci aiutarono, ci curarono, ci accolsero, ci diedero il benvenuto, come se fossimo ritornati a casa da un lungo viaggio.

Anime avvolte dall'oscurità, primitive, appassionate, ignoranti, contadini di una terra povera, la loro generosità diede una conclusione nobile a quel duro viaggio. Diedero con entrambe le mani, generosamente, senza fermarsi. Non misurarono, non contarono, non esitarono. E così Estraven ricevette quel che essi ci davano, come un Lord tra i lords suoi pari, o come un mendicante tra i mendicanti, un uomo tra la gente del suo popolo.

Per gli abitanti di quel villaggio di contadini e pescatori, gente povera che vive sul bordo del bordo, all'estremo limite abitabile di un continente a malapena abitabile, l'onestà è essenziale come il cibo. Devono comportarsi con giustizia e onestà l'uno con l'altro; non c'è abbastanza per ingannare, giocare, nascondersi. Estraven sapeva questo, e quando dopo un giorno o due essi cominciarono a chiedere, discreti e indiretti, con il debito riguardo per lo shifgrethor, perché noi avevamo scelto di passare un inverno a viaggiare sul Ghiaccio di Gobrin, egli rispose subito:

— Il silenzio non è quel che io dovrei scegliere, eppure mi è più conveniente di una menzogna.

— È ben noto che degli uomini d'onore possono essere messi fuori della legge, eppure la loro ombra non diminuisce, — disse il cuoco della taverna, che nel villaggio era secondo soltanto al capo, e la cui taverna era una specie di soggiorno dell'intero Dominio, d'inverno.

— Una persona può essere messa fuorilegge in Karhide, un'altra in Orgoreyn — disse Estraven.

— Vero; e una persona dal suo clan, un'altra dal re di Erhenrang.

— Il re non diminuisce l'ombra di nessun uomo, per quanto egli possa tentare di farlo — fece notare Estraven, e il cuore parve soddisfatto. Se fosse stato il clan di Estraven a scacciarlo, lui sarebbe stato un individuo sospetto, ma le censure del re non erano importanti. E in quanto a me, evidentemente uno straniero e di conseguenza colui che era stato messo fuorilegge in Orgoreyn, questo era semmai un titolo di credito.

Non dicemmo mai i nostri nomi a coloro che ci avevano ospitato nel Dominio di Kurkurast. Estraven era molto riluttante a usare un nome falso, e i nostri veri nomi non potevano essere pronunciati. Era, dopotutto, un crimine parlare a Estraven, e perciò ospitarlo, vestirlo e sfamarlo come quella gente aveva fatto doveva essere un delitto assai peggiore. Anche un villaggio remoto della Costa di Guthen possedeva una radio, e gli abitanti non avrebbero potuto proclamare a loro scusante l'ignoranza dell'Ordine di Esilio; solo una reale ignoranza dell'identità dei loro ospiti avrebbe potuto fornire loro una scusante. La loro vulnerabilità pesava sulla mente di Estraven, ancor prima che io avessi potuto pensarci. La terza notte egli venne nella mia stanza, per discutere la nostra prossima mossa. Un villaggio karhidi somiglia a un antico castello della Terra, nel fatto di non avere, di norma, delle abitazioni separate, private; oppure di averne pochissime. Eppure negli edifici alti, irregolari e antichi del Focolare, il Commercio, il Condominio (non esisteva un Lord di Kurkurast) e la Casa Esterna, ciascuno dei cinquecento abitanti del villaggio poteva trovare isolamento, perfino quello, nelle stanze di quegli antichi corridoi, dalle pareti di quasi un metro di spessore. Ci era stata data una stanza a testa, all'ultimo piano del Focolare. Ero seduto nella mia, accanto al fuoco, un fuoco piccolo, caldo, dall'aroma penetrante, di torba delle Paludi di Shenshey, quando entrò Estraven. Egli disse: