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Fine del messaggio.

Non ho una famiglia, almeno per quanto ne so. Sapevo che da qualche parte, là fuori, dovevano esserci persone con il mio stesso materiale genetico, di questo ero sicuro. Peggio per loro. Ma io non li ho mai conosciuti. Non li ho nemmeno cercati, né loro hanno cercato me. Sono stato adottato e cresciuto da Harry e Doris Morgan, i genitori di Deborah. E, considerando quello che sono diventato, hanno fatto un ottimo lavoro, non trovate?

Sono morti tutti e due. Quindi, Deb è l’unica persona al mondo alla quale se vivo o muoio possa importare più di una scoreggia di opossum. Per qualche ragione insondabile, lei mi preferisce vivo. Mi sembra gentile da parte sua e credo che, se mai dovessi provare sentimenti per qualcuno, sarebbe per Deb.

Perciò tirai fuori l’auto dal parcheggio del Metro-Dade e imboccai la vicina Turnpike, che mi portò a nord, sulla sezione della Tamiami Trail in cui hanno sede l’hotel El Cacique e altre centinaia di suoi fratelli e sorelle. A suo modo, è un paradiso. Specie se sei uno scarafaggio. File di costruzioni che riescono a essere rutilanti e ammuffite al tempo stesso. Neon che brillano sopra vecchie strutture squallide e corrose. Se non ci si va di notte, meglio non andarci. Perché vederle di giorno vuol dire trovarsi faccia a faccia con l’ultima riga del nostro inconsistente contratto con la vita.

In tutte le grandi città c’è una zona come questa. Se un cavallo pezzato all’ultimo stadio di lebbra volesse copulare con un canguro e un coro di teenager, si fionderebbe qui in cerca di una camera. E, una volta finito, potrebbe portare l’allegra compagnia a farsi una tazza di caffè cubano e un sandwich medianoche. Nessuno gli farebbe caso, fintanto che lascia buone mance.

Ultimamente Deborah aveva passato troppo tempo da quelle parti. È lei a pensarla così, non io. A qualcuno sembrava il posto adatto per una poliziotta che volesse incrementare le sue probabilità statistiche di arrestare qualche pessimo elemento, ma Deborah non la vedeva in quel modo. Forse perché lavorava alla Buoncostume. Una bella donna che lavora per la Buoncostume sulla Tamiami Trail di solito finisce a fare l’esca, ossia a starsene in strada seminuda per beccare uomini in cerca di sesso a pagamento. Deborah detestava quegli incarichi. La crociata contro la prostituzione la interessava solo sul piano sociologico. Non era convinta che impacchettare puttanieri significasse davvero combattere il crimine. Inoltre, cosa che sapevo solo io, Deborah detestava qualsiasi abbigliamento che enfatizzasse la sua femminilità e la sua figura seducente. Voleva essere una piedipiatti, non era colpa sua se sembrava uscita da un paginone di Playboy.

E quando arrivai al parcheggio condiviso dall’hotel El Cacique e dal suo vicino, il Tito’s Cafè Cubano, constatai che la sua figura era decisamente enfatizzata da un top rosa fluorescente, un paio di short di spandex, calze nere a rete e tacchi a spillo. Un completo preso a prestito direttamente dal magazzino di costumi per Battone di Hollywood in 3-D.

Qualche anno prima era arrivato all’orecchio di qualcuno alla Buoncostume che i papponi si facessero un sacco di risate alle loro spalle. Pare che fossero gli sbirri maschi della squadra a scegliere gli abiti di scena per le colleghe che facevano da esca. Le loro scelte di abbigliamento, benché rivelatrici dei loro particolari gusti sessuali, non corrispondevano per niente al vero puttana-look. Per cui tutti, sulla strada, capivano subito quando la Nuova Ragazza aveva pistola e distintivo nella borsetta. A seguito di questa dritta, la Buoncostume aveva insistito che le ragazze in incognito scegliessero da sole i loro vestiti. Dopotutto, chi meglio delle donne sa quello che ci vuole?

Forse la maggior parte. Ma Deborah no: si sente a suo agio solo con addosso un’uniforme blu. Avreste dovuto vedere il vestito che voleva mettersi al ballo del liceo. E stavolta… Non avevo mai visto una bella donna indossare un vestito così provocante e risultare così poco invitante sessualmente. Non che passasse inosservata: il suo top rosa era più vistoso del chilometro di nastro giallo che delimitava la scena del crimine e più luminescente dei lampeggiatori delle tre auto di pattuglia nel parcheggio.

Deb stava su un lato, intenta a tenere una folla crescente di curiosi a debita distanza dai tecnici della Scientifica che, a quanto pareva, stavano passando in esame i bidoni dell’immondizia della caffetteria. Ero lieto di non dovermene occupare io. Anche col finestrino chiuso, se ne sentiva la puzza fino in strada: un tanfo di caffè latino, frutta marcia e maiale rancido.

Il piedipiatti all’ingresso del parcheggio era uno che conoscevo e mi fece passare con un cenno della mano. Trovai un posto per la macchina.

«Deb», chiamai, andando incontro a mia sorella. «Bel vestito. Mette proprio in risalto la tua figura.»

«Vaffanculo», rispose lei, arrossendo. Uno spettacolo da vedere, in una poliziotta veterana. «Hanno trovato un’altra prostituta. O, almeno, pensano che lo fosse. Non si capisce molto, da quello che è rimasto.»

«Allora è la terza in cinque mesi», calcolai.

«La quinta», mi corresse Deb. «Ce ne sono state altre due nella giurisdizione di Broward.» Scosse il capo. «Quegli stronzi continuano a sostenere che ufficialmente i casi non sono correlati.»

Cercai di mostrarmi comprensivo. «Ci vorranno troppe menate burocratiche per coordinare le indagini tra un Dipartimento e l’altro.»

Deb mi mostrò i denti. «Ci vorrebbe una cazzo di indagine», ringhiò. «Anche un cretino vedrebbe che sono collegati.» E fu scossa da un brivido.

La guardai, stupito. Era una poliziotta, figlia di un poliziotto. Certe cose non le facevano né caldo né freddo.

Quando era una recluta i colleghi più anziani facevano apposta a mostrarle i cadaveri smembrati, che a Miami spuntavano ogni giorno, per vedere se vomitava il pranzo. Ma lei rimaneva del tutto imperturbabile. Per lei era il pane quotidiano.

Sennonché stavolta c’era qualcosa che le faceva venire i brividi.

Interessante.

«Questo caso è speciale, o sbaglio?» le chiesi.

«Questo caso è nella mia zona, con le battone.» Puntò un dito verso di me. «E questo caso significa che ho una chance di metterci il naso, farmi notare e chiedere il trasferimento alla Omicidi.»

Le rivolsi il mio sorriso allegro. «Ambiziosa, Deborah?»

«Hai proprio ragione. Voglio andarmene dalla Buoncostume, Dexter, e questo può essere il mio autobus. Basta solo un indizio…» Fece una pausa. «Per favore, Dex, aiutami. Non ne posso più.»

«Per favore? Deborah, mi hai chiesto per favore? Non sai quanto mi rende nervoso?»

«Basta stronzate, Dex.»

«Ma, Deborah, davvero…»

«Ho detto basta. Mi aiuti o no?»

Dal momento che la metteva così, con quello strano, insolito per favore sospeso nell’aria, che altro potevo dire se non: «Certo che ti aiuto, Deb. Lo sai».

Lei mi lanciò un’occhiataccia, ritirando il per favore. «Non lo so, Dex. Con te non si sa mai.»

«Certo che ti aiuto, Deb», ripetei, cercando di apparire offeso. E, continuando a mostrarmi leso nella mia dignità, mi diressi verso i topi della Scientifica che rovistavano tra la spazzatura.

Trovai Camilla Figg che cercava di rilevare impronte digitali. Era una donna robusta dai capelli corti, sui trentacinque anni, apparentemente immune alle mie facezie. Ma quando mi vide si rialzò sulle ginocchia, arrossì e mi guardò senza proferire parola. Era così tutte le volte: mi guardava e arrossiva.

Seduto su una cassetta di plastica capovolta, in fondo al vicolo, c’era Vince Masuoka, intento a esaminare una manciata di pattume. Era mezzo giapponese e la sua battuta preferita era dire che gli era capitata la metà più bassa. Quantomeno, lui la considerava una battuta. C’era qualcosa di strano nel suo luminoso sorriso asiatico, come se avesse imparato a sorridere da un manuale illustrato. Anche quando sparava le inevitabili battute per allentare la tensione, insieme agli altri poliziotti, nessuno si incazzava con lui. Nessuno rideva, d’altra parte, ma questo non lo tratteneva dal dirle. Era per questo che mi era simpatico: si ostinava a seguire correttamente i rituali, ma tutto sembrava simulato.