— Non ti fidavi di me — disse Lindsay.
— E tu non sei morto.
Lindsay non disse niente.
— Guarda qua! — Constantine si sfilò uno dei suoi guanti da laboratorio. Sotto, la sua pelle olivastra si stava squamando come quella di un rettile. — È un virus — disse. — È l’immortalità. Del genere dei Plasmatori, prodotto dalle cellule stesse, non quelle protesi dei Mech. Sono impegnato, cugino.
Prese su un lembo di pelle elastica. — Vera ha scelto te, non me. Io vivrò per sempre, e all’inferno tu e le dottrine umanistiche. Adesso l’umanità è un argomento morto, cugino. Non ci sono più anime. Solo stati della mente. Se pensi di poterlo negare, allora, ecco qua. — Porse a Lindsay un bisturi per la dissezione. — Metti te stesso alla prova. Dimostra che le tue parole non erano vuote. Dimostra che sei migliore morto e umano.
Il coltello era nelle mani di Lindsay. Fissò la carne del suo polso. Fissò la gola di Constantine. Sollevò la lama sopra la propria testa, la tenne sospesa in quella posizione, e lanciò un urlo.
Quell’urlo lo svegliò, e si trovò nell’infermeria, inzuppato di sudore, mentre il Secondo Magistrato, con occhi appesantiti dagli intossicanti, gli passava una mano segnata dalle vene lungo l’interno della coscia.
Il Terzo Deputato, o Dep Tre, come veniva comunemente chiamato, era un giovane tarchiato, che sorrideva in continuazione, con un naso segnato da cicatrici e capelli corti, color sabbia, tagliati a spazzola.
Come molti esperti di attività extraveicolare, era un fanatico dello spazio e passava la maggior parte del tempo fuori della nave, rimorchiato da lunghi chilometri di cavo. Le stelle gli parlavano, e il Sole era suo amico. Indossava sempre la sua tuta spaziale, perfino dentro la nave, e le zaffate degli odori corporei a lungo fermentati uscivano dal collare aperto del suo casco con un’asprezza che faceva lacrimare gli occhi.
— Mando fuori il “fuco” — disse, rivolto a Lindsay, mentre mangiavano insieme nella cabina di comando. — Puoi collegarti con esso da qui. È quasi come essere all’esterno.
Lindsay mise da parte il suo barattolo vuoto di pasta verde. Il fuco era un’antica sonda planetaria, trovata in un’orbita da qualche equipaggio da lungo tempo dimenticato, ma i suoi telescopi e le antenne a microonde erano ancora utili, e potevano anche trasmettere. A centinaia di klick fuori, attraverso il suo cavo a fibre ottiche, il fuco senza equipaggio poteva captare le trasmissioni dallo spazio profondo e ingannare i radar nemici con contromisure elettroniche.
— Ma sicuro, cittadino — disse Lindsay. — Diavolo!
Dep Tre annuì con passione. — Sarà bellissimo, Segretario di Stato. Il tuo cervello si diffonderà così in fretta e così sottilmente che per te sarà una seconda pelle.
— Non intendo prendere nessuna droga — obiettò Lindsay, guardingo.
— Non puoi prendere delle droghe — disse Dep Tre. — Se prendi delle droghe, il Sole non ti parlerà. — Prese su dalla consolle un paio di video-occhialoni e li infilò sulla testa di Lindsay. All’interno degli occhialoni un minuscolo sistema video proiettava le immagini direttamente sui bulbi oculari. In quel momento il fuco era disattivato. Lindsay vide soltanto una sequenza di azzurri ed enigmatici segnali alfanumerici posti di traverso in fondo al suo campo visivo. Non provava nessuna sensazione di trovarsi davanti a uno schermo. — Finora tutto bene — disse.
Udì una serie di scatti provenienti dalla tastiera quando il Dep Tre attivò il fuco. Poi l’intera nave subì una leggera scossa quando la sonda robot si staccò. Lindsay sentì la sua guida che indossava un altro paio di video-occhialoni, poi, attraverso le telecamere del fuco, vide per la prima volta l’esterno della Consensus.
Faceva pena vedere l’aspetto sudicio e sciatto della loro nave. I vecchi motori erano stati strappati via dalla poppa e sostituiti con un’improvvisata galleria ad aggancio, un tubo a fisarmonica lungo e flessibile, con i denti frastagliati di una trivella mineraria a una sua estremità. Un nuovo motore, uno dei SEPS elettromagnetici di vecchio tipo dei Plasmatori, era stato saldato alle estremità di quattro lunghi supporti.
Il motore globulare rappresentava un rischio a causa delle microonde, e veniva tenuto il più possibile lontano dagli alloggiamenti dell’equipaggio. I cavi per la trasmissione dei comandi avvolti in lamina metallica s’inerpicavano come serpenti su per i sostegni, che erano stati goffamente imbullonati al ponte di poppa.
Accanto ai sostegni si trovava, come rannicchiata, la massa inerte di un robot minerario. Nel vederlo là in attesa, privo di alimentazione, Lindsay si rese conto di quale poderosa arma rappresentasse: le sue fauci spalancate, affilate come rasoi, potevano lacerare una nave come se fosse fatta di carta stagnola.
Un altro meccanismo aderiva allo scafo: un razzo parassita. Il vecchio scafo corrugato, dipinto con un verde d’una brutta, indisponente sfumatura, era coperto di raschiature e graffi dovuti alle zampe magnetiche del piccolo razzo. Essendo mobile, il parassita svolgeva tutto il lavoro dei retrorazzi.
Il terzo ponte, con il suo sistema di sopravvivenza, era un groviglio disordinato, un impasto di spropositate apparecchiature per la ventilazione e tubi idraulici, alcuni così vecchi che i loro isolanti erano scoppiati, rimanendo sospesi in caduta libera come tante tumide stelle filanti. — Non ti preoccupare, quelli non li usiamo — lo rassicurò, con insolita loquacità, Dep Tre.
I quattro pannelli solari congiunti si estendevano lateralmente dal quarto ponte, una luccicante croce di silicone nero intersecato da una griglia di rame. Il brutto muso del cannone a raggi di particelle era appena visibile dietro la curva dello scafo.
— Una piccola stella-nazione sotto l’occhio del Sole — disse il Dep Tre. Fece descrivere una virata al fuco. Lindsay vide il cavo che teneva impastoiato il fuco. Poi le sue telecamere misero a fuoco il sartiame della vela solare dell’astronave. Nella prua c’era una cavità d’immagazzinamento per il tessuto ripiegato a fisarmonica, che adesso era vuota; le diciannove tonnellate di pellicola metallica erano distese grazie alla leggera pressione lungo un arco d’argento largo due chilometri. La telecamera avvicinò la scena con una zoomata e Lindsay vide, quando l’immagine s’ingrandì, che anche la vela era vecchia: increspata qua e là, e impallinata dai numerosi fori dovuti alle micrometeore.
— Il Presidente dice che la prossima volta che potremo permettercelo compreremo uno spruzzatore monostrato e stamperemo un grosso teschio di mamma-brucia e le folgori incrociate sul lato esterno di quella — l’informò il Terzo Deputato.
— Buona idea — annuì Lindsay. Udì altri ticchettii, e d’un tratto il fuco dipanò il proprio cavo addentrandosi nello spazio profondo ad una velocità terrificante. Nel giro di pochi istanti la Red Consensus si ridusse alle dimensioni di un ditale accanto all’ampia chiazza della sua vela che si era ridotta alle dimensioni di un tavolo. Lindsay fu preso allo stomaco da una sensazione di vertigine e cercò, alla cieca, di aggrapparsi alla consolle. Serrò gli occhi dentro gli occhialoni, poi li riaprì al cosmico panorama dello spazio profondo.
— La Via Lattea — disse il Terzo Deputato. Un immenso arco bianco si allargava attraverso una buona metà della realtà. Lindsay perse il controllo della prospettiva. Per un attimo ebbe l’impressione che quel miliardo di puntolini bianchi dell’orlo galattico premessero impietosamente sui suoi bulbi oculari. Chiuse un’altra volta gli occhi, profondamente grato di non trovarsi effettivamente là fuori.