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— È da lì che arrivano gli alieni — lo informò il Dep Tre.

Lindsay aprì gli occhi. Era soltanto una bolla, si disse, con delle macchioline bianche schizzettate su di essa. Una bolla con lui stesso al centro… ecco, adesso si era stabilizzata. — Quali alieni? — chiese.

— Gli alieni, Segretario di Stato. — Il Terzo Deputato era genuinamente sorpreso. — Non sai che sono là fuori?

— Sicuro — annuì Lindsay.

— Vuoi guardare il Sole per un po’? Forse ti dirà qualcosa.

— Che ne dici di Marte? — suggerì Lindsay.

— Non va bene. È in opposizione. Però possiamo provare con gli asteroidi. Controlliamo l’eclittica. — Vi fu un attimo di silenzio, riempito dalla musica in sordina della cabina di comando, mentre le stelle ruotavano. Lindsay usò l’haragei e avvertì la rotazione del fuco come un movimento uniforme intorno al proprio centro di gravità. Il costante addestramento dava i suoi frutti. Si sentiva solido, sicuro, fiducioso. Respirava dalle profondità dello stomaco.

— Là ce n’è uno — disse il Deputato. Un lontano puntolino luminoso centrò il suo campo visivo, gonfiandosi poi fino a diventare una chiazza. Quando parve aver assunto all’incirca le dimensioni di un dito, i suoi bordi divennero sfumati e persero definizione. Il Terzo Deputato inserì la risoluzione computerizzata, e l’immagine crebbe ancora fino a diventare un cilindro dalle punte arrotondate, che brillava con i falsi colori d’una scala cromatica convenzionale.

— È un’esca — disse il Dep Tre.

— Lo credi?

— Proprio così. Ne ho viste altre. Opera dei Plasmatori. È solo un guscio di altopolimeri, un pallone cavo a tenuta stagna. Potrebbe esserci qualcuno dentro.

— Non ne avevo mai visto uno — disse Lindsay.

— Ce ne sono a migliaia. — Ed era vero. Gli arraffa-concessioni della Cintura da anni ormai producevano quelle esche. I gusci di polimero erano grandi abbastanza da ospitare un piccolo avamposto di spie di dati, dirottatori di fuchi, o disertori. I potenziali cani solari potevano nascondervisi dalle squadre di polizia, oppure gli esperti plasmatori di cifrari potevano rimanere in agguato dentro di essi, intercettando le trasmissioni intercartello. La strategia consisteva nel sovaccaricare i sistemi di braccaggio dei Mech con uno sciame di potenziali nascondigli. I Plasmatori si erano attivati in modo massiccio per ottenere il controllo della Cintura e c’erano ancora gruppi isolati di agenti dei Plasmatori che si spostavano da cellula a cellula dietro le linee dei Mech mentre il Consiglio dell’Anello era assediato. Molte esche erano attrezzate con sistemi di trasmissioni propagandistiche oppure con congegni per il rilevamento dei venti solari che erano in grado di deviare le loro orbite; alcuni potevano ripetutamente espandersi e restringersi, scomparendo dai radar dei Mech. Costava assai meno produrli di quanto si doveva spendere per rintracciarli e distruggerli, dando così ai Plasmatori un vantaggio economico.

La Red Consensus era stata affittata per distruggere un avamposto in cui si trovava uno di quei centri di produzione.

— Quando ci sarà la pace — disse il Dep Tre — potrai comperarti una dozzina di quei cosi, unirli con delle tubovie, e avrai un’ottima nazione-stazione a poco prezzo.

— Ci sarà mai pace? — chiese Lindsay.

Le pareti ronzarono quando la Red Consensus barcollò per rimettersi in linea. — Quando arriveranno gli alieni — rispose il Dep Tre.

A bordo della Red Consensus
30-11-’16

Si stavano addestrando in palestra. — Basta per oggi — disse il Presidente. — Avete tutti un ottimo aspetto. Perfino il Segretario di Stato ha capito i fondamentali.

I tre deputati risero, togliendosi il casco. Lindsay fece schioccare il sigillo e a sua volta si sfilò il casco da sopra la testa. La sessione di combattimento era durata più a lungo di quanto si fosse aspettato. Aveva nascosto dentro la tuta il tampone preso da un inalatore; l’aveva inzuppato di vasopressina. Sapeva quello che sarebbe venuto dopo, e sapeva che avrebbe avuto bisogno di tutte le risorse del suo addestramento. Ma le esalazioni erano state più intense di quanto si fosse reso conto; si sentiva stordito, e la vescica gli faceva male.

— Sei rosso, Segretario di Stato — gli disse il Presidente. — Ti manca il fiato?

— È l’aria dentro la tuta, signore — mentì Lindsay, le parole echeggiarono forti ai suoi orecchi. — L’ossigeno, signore. — La vasopressina aveva dilatato i vasi sanguigni sotto la sua pelle.

Il Primo Deputato scoppiò a ridere, con una smorfia. — ’Stato è moscio.

— Riposo, il resto di voi, cittadini. Il Segretario di Stato e io dobbiamo discutere di affari.

Le tute venivano infilate attraverso una lunga giunzione interna a forma di ferro di cavallo, disposta lungo l’inguine e le cosce. Gli altri, salvo il Terzo Deputato, uscirono dalle rispettive tute nel giro di pochi secondi. Lindsay aprì la cerniera della giunzione e scalciò le gambe fuori dai pesanti stivali magnetici.

Gli altri se ne andarono, lasciando soli Lindsay e il Presidente. Lindsay si scrollò la tuta da sopra la testa, e mentre lo faceva serrò la mano destra all’interno del voluminoso braccio della tuta, affondando un ago ipodermico in profondità dentro la base del palmo della mano. Poi strappò fuori l’ago e lo lasciò galleggiare giù, dentro le dita guantate.

Lasciò la tuta aperta perché si arieggiasse, e se la cacciò sotto il braccio. Adesso nessuno l’avrebbe toccata; adesso apparteneva a lui, Lindsay, con lo stemma diplomatico della DMF su entrambe le spalle. Lindsay seguì il Presidente fino al ponte soprastante e depositò la tuta sulla sua rastrelliera.

Lui e l’altro erano soli nello “sgabuzzino delle scope”. Il volto del Presidente tradiva l’ansia. — Sei pronto, soldato? Ti senti pronto? Ideologicamente, voglio dire.

— Sì, signore — rispose Lindsay. — Ho deciso, signore.

— Allora, seguimi. — Salirono altri due ponti, fino alla cabina di comando. Il Presidente si tirò su, entrando prima con la testa, dentro l’angusta armeria e quindi dentro lo scomparto del cannone.

Lindsay lo seguì. La testa gli pulsava, i vasi sanguigni dilatati gli martellavano ritmicamente. Si sentiva più affilato d’una scheggia di vetro. Tirò un profondo respiro, quindi si issò, entrando per i piedi, dentro lo scomparto del cannone. Piombò subito in una sorta d’universo paranoico.

— Sei pronto?

— Sì, signore — dichiarò Lindsay. Lentamente, si assicurò con le cinghie allo scheletrico seggiolino dei comandi. L’antico cannone appariva sinistro, impressionante. D’un tratto provò un lampo d’intuizione, una certezza gelida come l’acciaio, che in realtà il cannone fosse puntato contro le sue budella. Tirare il grilletto avrebbe significato ridurre a brandelli se stesso.

Lindsay ricordava le procedure. Nello stato in cui si trovava, era come se fossero state stampate nel suo cervello. Passò la mano sulla superficie nero-opaca del quadro di comando e diede energia con un colpetto dell’interruttore a scatto. Dietro di lui la musica ovattata della cabina di comando scese di un’ottava quando iniziò il prelievo di energia. Un’intera fila di maligni blip rossi e di altre spie si accese di colpo sotto l’arcano azzurro dello schermo del bersaglio.

Lindsay guardò oltre lo schermo. Lo sguardo gli si offuscò. C’era una lieve iridescenza, come quella d’un sottile strato d’olio, sui sostegni innervati lungo la canna del cannone. Costolature spesse e nere, dagli orli duri: magneti a superconduttori, dai quali parevano colare spire simili a budella fatte di cavi elettrici coperti di sottili fogli metallici.