Era una pornografia di morte. Una degradazione del genio umano alla più abbietta prostituzione che sarebbe sfociata nel suicidio razziale.
Lindsay attivò l’interruttore che armava il cannone, e sollevò la prima leva di sicurezza. Infilò la mano dentro la cavità dietro il dispositivo di blocco. Le sue dita presero posizione intorno alle zigrinature d’una impugnatura di plastica. Spostò lateralmente con il pollice un altro arresto di sicurezza. La macchina cominciò ad emettere un ronzio lamentoso.
— Tutti noi dobbiamo farlo — disse il Presidente. — Non può essere affidato ad uno di noi soltanto.
— Capisco, signore — annuì Lindsay. Aveva ripassato fra sé quelle parole. Il cannone non prendeva di mira niente, era puntato fuori dall’eclittica, verso il vuoto spazio galattico. Nessuno sarebbe stato danneggiato. Tutto quello che doveva fare era tirare il grilletto… Non sarebbe stato capace di farlo.
— Tutti noi l’odiamo — dichiarò il Presidente. — Il cannone rimane chiuso per tutto il tempo, lo giuro. Ma dobbiamo averlo. Non puoi mai sapere cosa ti troverai ad affrontare nel corso della prossima azione. Forse il colpo grosso. Il colpo che ci permetterà di comperarci la strada dentro un cartello, di far di noi, nuovamente, una nazione. Poi potremo buttare nella spazzatura questo mostro.
— Sì, signore. — Non era qualcosa che riuscisse ad affrontare direttamente, né qualcosa a cui riuscisse a pensare con freddezza. Era troppo profondo… era la base dell’universo.
I mondi potevano esplodere. Le paratie contenevano la vita stessa, e fuori da quelle paratie e da quelle camere di equilibrio incombeva un’oscurità totalmente spietata, il nulla letale del nudo spazio. Nei vecchi circumlunari, nei moderni cartelli mech, nel Consiglio dell’Anello dei Plasmatori, perfino nei remotissimi avamposti dei minatori cometari e nelle avvampanti fonderie dell’orbita intra-mercuriana, ogni singolo essere pensante portava in sé questa consapevolezza. Troppe generazioni erano vissute e morte sotto l’ombra della catastrofe. Ognuno ne era rimasto impregnato sin dall’infanzia.
Gli habitat erano sacri: sacri perché erano deboli. La fragilità era universale. Una volta che un singolo mondo veniva deliberatamente distrutto, non poteva più esserci nessuna sicurezza da nessuna parte, per nessuno. Ogni singolo mondo sarebbe esploso in mille inferni di guerra totale.
Non c’era nessuna vera sicurezza. Non ce n’era mai stata nessuna. C’erano cento modi per uccidere un mondo: fuoco, esplosioni, veleno, sabotaggi. La costante vigilanza esercitata da tutte le diverse società poteva soltanto ridurre il rischio. Il potere di distruggere era nelle mani di tutti. Tutti condividevano il fardello della responsabilità. Lo spettro della distruzione aveva spezzato il paradigma morale di ciascun pianeta e di ciascuna ideologia.
I destini dell’uomo nello spazio non erano stati facili, e l’universo di Lindsay non era di quelli semplici. C’erano epidemie di suicidi, acerrime lotte di potere, rabbiosi pregiudizi tecnorazziali, la rovinosa soppressione di intere società.
Eppure la follia suprema era stata evitata. C’era la guerra, certo; imboscate su piccola scala, navi spaziali distrutte, minuscole concessioni minerarie sottratte ai loro abitanti con l’assassinio degli stessi: tutti i feroci e oscuri conflitti che esplodevano come scintille dal macinante impatto delle superpotenze dei Mech e dei Plasmatori. Ma l’umanità era sopravvissuta, anzi, era fiorita.
Era un trionfo fondamentale e profondo. Insieme alla paura che albergava nel profondo della sua mente c’erano anche una speranza e una fiducia più forti. Era una vittoria che apparteneva a tutti: una vittoria così completa e profonda che era scomparsa alla vista, e apparteneva a quel segreto regno della mente nel quale ogni altra cosa trova la sua origine.
Eppure quei pirati, come dovevano fare i pirati, controllavano un’arma di distruzione di massa. Era un’antica macchina, la reliquia di un’era di follia, quando gli uomini per la prima volta avevano aperto il vaso di Pandora della fisica. Un’era in cui gli esplosivi cosmici si erano diffusi sulla superficie della Terra a macchia d’olio.
— L’ho sparato io stesso la settimana scorsa — disse il Presidente — perciò so che i servizi di sicurezza dello Zaibatsu non hanno minato il bastardo. Alcuni dei cartelli mech lo farebbero. Ti arrestano con i vascelli doganali a quattromila klick di distanza, ti chiudono l’armamentario, poi mettono un chip ritardante nei circuiti… tu tiri il grilletto, il chip si vaporizza, gas nervino… Non fa nessuna differenza. Tira quel grilletto da combattimento, e sei morto lo stesso, al novantanove per cento. Anche i plasmatori che stiamo per attaccare hanno roba da Armageddon. Noi dobbiamo avere tutto quello che hanno loro. Dobbiamo poter fare qualunque cosa che possono fare loro. È la guerra nucleare, soldato, altrimenti non potremmo parlarci… Adesso, fuoco!
— Fuoco! — gridò Lindsay. Non accadde nulla. Il cannone rimase silenzioso.
— Qualcosa non va — disse Lindsay.
— Il cannone?
— No, il mio braccio. Il mio braccio. Non riesco a staccarlo dall’impugnatura della pistola. I muscoli si sono annodati.
— I muscoli… cosa? — esclamò il Presidente. Strinse l’avambraccio di Lindsay. I muscoli sporgevano come cavi, serrati nella rigidità d’una paralisi.
— Oh, Dio — fece Lindsay, con una punta d’isterismo nella voce ben esercitata. — Non riesco a sentire la tua mano. Stringimi il braccio.
Il Presidente gli stritolò il braccio con la sua tremenda forza. — Niente — disse Lindsay. Quand’era ancora nella tuta spaziale, aveva riempito il braccio di anestetico. Il crampo era un espediente diplomatico. Non era un espediente facile. Non aveva avuto l’intenzione che le sue dita venissero sorprese intorno all’impugnatura.
Il Presidente affondò la punta callosa delle sue dita dentro il solco esterno del gomito di Lindsay. Malgrado l’anestetico, il dolore trafisse i suoi nervi schiacciati. La sua mano sussultò leggermente, lasciando la presa. — L’ho sentito soltanto un po’ — annunciò, calmo. C’era qualcosa che poteva fare con il dolore, se la vasopressina l’avesse aiutato a ricordare… Ecco. Il dolore si trasformò, perse la sua colorazione, divenne qualcosa di perversamente simile al piacere.
— Potrei provare con la sinistra — disse Lindsay sportivamente. — Naturalmente, se anche il braccio sinistro dovesse partire, allora…
— Cos’è che non va con te, Segretario di Stato? — Il Presidente affondò con crudeltà il pollice dentro il complesso dei nervi del polso di Lindsay. Lindsay avvertì quell’angosciante dolore come un fresco lenzuolo nero drappeggiato attraverso il suo cervello. Quasi perse conoscenza; i suoi occhi ammiccarono, ed ebbe un pallido sorriso.
— Dev’essere qualcosa che mi hanno fatto i Plasmatori. Programmazione neurale. Hanno sistemato le cose in modo che non mi riuscisse mai di farlo. — Deglutì a fatica. — È come se non fosse il mio braccio. — Il sudore gl’imperlava la fronte. Era talmente legato alla vasopressina da riuscire a sentire ogni muscolo del suo viso come un’entità separata, proprio come gli avevano insegnato all’accademia.
— Questo non lo posso accettare — ribatté il Presidente. — Se non puoi tirare quel grilletto, allora non puoi essere uno di noi.
— Potrebbe essere possibile improvvisare una specie di marchingegno meccanico — si affrettò a dire Lindsay, in tono perspicace. — Una specie di guanto mosso da pistoni che potrei infilarci sopra. Io sono disposto, signore. È questo che non lo è. — Sollevò rigidamente il braccio, poi lo abbatté sul durissimo spigolo del cannone. Lo colpì di nuovo. — Non riesco a sentirlo. — La pelle si sbucciò sopra il muscolo. Piccole, brillanti gocce di sangue schizzarono in alto, galleggiando a mezz’aria. Il braccio rimase rigido. Un tentacolo increspato di sangue simile a un’ameba colò fuori dal lungo graffio.