“È per questo che hanno assunto voi. I ricchi mech, quelli al potere, vi hanno rivolto contro di noi. E noi sopravviviamo. Abbiamo costruito questa base dal nulla, con le nostre mani, il nostro cervello, la nostra intrinseca sostanza organica. Siete stati voi a venire fin qui a ucciderci.”
— Ma adesso siamo qui — ribadì Lindsay. — A ciò che è ormai passato non si può porre rimedio. Ti sto pregando di lasciarmi vivere, e tu mi rispondi con dell’ideologia. Per favore, Nora, cedi un pochino, non ucciderci tutti.
— Voglio vivere — disse la donna. — Sei tu che dovresti unirti a noi, qui. Gli altri della vostra banda non ci servirebbero a molto, ma potremmo tollerare te. Non sarai mai un vero plasmatore, ma c’è spazio per l’imprevisto sotto la nostra egida. In un modo o nell’altro, siamo in grado di aggirare qualunque mossa i cartelli possano fare contro di noi.
— Siete assediati — disse Lindsay.
— Romperemo l’assedio. Non l’hai saputo? La Concatenazione si schiererà con noi. Abbiamo già un circumlunare dalla nostra: la Repubblica Corporativa Circumlunare del Mare della Serenità.
Perfino qui era toccato dall’ombra di Constantine. — E questo lo chiami un trionfo? — chiese. — Quei piccoli mondi decadenti. Quelle reliquie in rovina.
— Noi le ricostruiremo — disse la donna con raggelante fiducia. — Noi possediamo i loro giovani.
— Benvenuta a bordo, dottor Mavrides — disse il Presidente. Le porse la mano. Nora la strinse senza esitazione. La sua pelle era protetta sotto la sottile plastica della tuta spaziale.
— Un ottimo inizio per un nuovo anno — commentò Lindsay. Si trovavano sul ponte di comando della Red Consensus. Lindsay si rese conto di quanto gli fossero mancati i familiari schiocchi e blip e cigolii degli strumenti. I suoni subito s’insediarono dentro di lui, allentando una tensione che non sapeva di aver avuto.
I negoziati erano vecchi di dodici giorni. Si era dimenticato del bruttissimo aspetto dei pirati, come apparissero degli inveterati sporcaccioni. Avevano i pori ostruiti, i capelli puzzolenti e unti, i denti bordati dalla placca batterica. Agli occhi di un plasmatore, erano animali selvaggi.
— Questo è il nostro terzo accordo — disse il Presidente in tono molto formale. — Prima l’Atto dei Canali Aperti, poi la Valutazione Tecnologica e il Consenso al Commercio, e adesso un autentico successo nella politica della giustizia sociale, l’Atto dell’Integrazione. Benvenuta sulla Red Consensus, dottore. Speriamo che vogliate considerare ogni singolo angstrom del vascello come parte del vostro retaggio nazionale.
Il Presidente fissò con una puntina il tabulato del trattato ad una paratia, e lo firmò con uno svolazzo. Lindsay v’impresse il sigillo del Segretario di Stato con la mano sinistra. La carta sottile s’increspò leggermente.
— Siamo tutti connazionali, qua dentro — dichiarò il Presidente. — Rilassiamoci un po’. Impariamo, uhm, a conoscerci.
Tirò a sé un inalatore di bronzo indurito, e inspirò da esso ostentatamente.
— Ti sei cucita quella tuta spaziale da sola? — chiese il Presidente della Camera.
— Sì, Presidente. Le cuciture sono di filo metallico e resine epossidiche estratte dalle nostre banche dati organiche.
— Intelligente.
— Mi piacciono i vostri scarafaggi — dichiarò il Secondo Deputato. — Rosa, oro e verde. Non sembrano affatto scarafaggi. Mi piacerebbe averne qualcuno.
— Sono sicura che potremo metterci d’accordo — disse Nora.
— Vi posso dare in cambio un po’ di rilassanti. Ne ho parecchi.
— Grazie — annuì Nora. Se la stava cavando benissimo. Lindsay, in qualche modo, si sentiva orgoglioso di lei.
Nora aprì la chiusura lampo della propria tuta spaziale e ne uscì fuori. Sotto, indossava un poncho triangolare che le passava sopra le spalle, geometricamente ricamato in bianco e azzurro-ghiaccio. Le estremità affusolate del poncho erano tenute assieme da lacci che passavano sopra i fianchi, lasciando nude le gambe salvo per i sandali di velcro con spighette.
Con molto tatto i pirati avevano rinunciato alle proprie tute con sopra disegnato lo scheletro rosso e argento. Indossavano invece dei copritutto marrone grigiastro dello Zaibatsu. Parevano tanti selvaggi.
— Mi piacerebbe una di queste — disse il Dep Tre. Avvicinò il braccio a fisarmonica della sua antica tuta spaziale a quello di plastica sottile della tuta di Nora. — Come fai a respirare in quella ventosa?
— Non è per lo spazio profondo. La riempiamo di ossigeno e respiriamo fino a quando possiamo. Dieci minuti.
— Potrei collegarci una bombola. Sarebbe più adatta allo spazio, cittadina. Al Sole piacerebbe.
— Potremmo insegnarti a cucirtene una. È un’arte che vale la pena di conoscere. — Sorrise al Dep Tre, e Lindsay rabbrividì dentro di sé. Sapeva come il fetore del sudore che usciva dalla tuta del Dep dovesse rivoltarle lo stomaco.
Si mosse fra loro due, sospingendo senza troppa cura il Dep Tre. E, per la prima volta, toccò Nora Mavrides. Appoggiò delicatamente la mano sulla morbida spalla azzurra e bianca del suo poncho. Ma il muscolo sotto la sua mano era rigido come fil di ferro.
La ragazza ebbe un nuovo, fugace sorriso. — Sono sicura che gli altri troveranno affascinante questa nave. Siamo arrivati qui in una specie di tinozza. Il nostro carico era costituito per i nove decimi da ghiaccio, per i serbatoi del “ware” organico. Eravamo immersi nella pasta antiaccelerazione, prossimi alla morte. Avevamo i nostri robot e i nostri tokamak. Il resto era una sorta di miscuglio di questo e di quello. Filo elettrico, una manciata di microchip, sali e tracce di minerali. E poi avevamo tutta roba genetica: uova, semi, batteri. Siamo arrivati qui nudi, per risparmiare peso al momento del lancio. Tutto il resto l’abbiamo fatto con le nostre mani, amici. La carne contro la roccia. E la carne vince, se è abbastanza furba.
Lindsay annuì. Non aveva citato la loro arma a pulsazioni elettromagnetiche. Nessuno parlava dei cannoni.
Lei si sforzava di incantare i pirati, il suo orgoglio li pungolava. L’orgoglio della Famiglia era giustificato. Erano riusciti a destreggiarsi, arrivando alla prosperità, partendo da un “ware” organico batterico contenuto in capsule di gelatina non più grandi di capocchie di spillo. Erano diventati maestri nell’uso delle plastiche, le avevano sintetizzate dalla roccia. I loro manufatti erano economici quanto la vita stessa.
Erano cresciuti dentro la roccia, vi erano penetrati con l’implacabile persistenza dei loro corpi morbidi. ESAIRS XII era traforato dovunque di gallerie. I loro cerchi dai denti aguzzi scavavano senza sosta nuove gallerie. Avevano costruito dei ventilatori con sacchi di vinile e nervature di plastica mnemonica. Le nervature respiravano. Erano collegati al tokamak dell’impianto a fusione, e un piccolo cambiamento di voltaggio li faceva piegare e flettere, succhiando dentro l’aria con uno schiocco dei polmoni di plastica e un ansito animalesco all’espirazione. Era il suono della vita all’interno della roccia, il raschiare dei cerchi, i ventilatori che respiravano, l’improvviso gorgogliare dei fermentatori.
Avevano delle piante. Non soltanto alghe e glutine, ma anche fiori: rose, phlox, margherite, o meglio piante che avevano conosciuto quei nomi prima che il loro DNA avesse assaggiato il bisturi. Sedano, lattuga, frumento nano, spinaci, alfalfa. Bambù: con dei fili di ferro sottili e infinita pazienza, riuscivano a torcere il bambù facendone bottiglie e complessi intrichi di tubi. Uova: avevano perfino dei polli, o creature che un tempo lo erano stati, prima che le giuntatrici genetiche dei Plasmatori le trasformassero in utensili generici da caduta libera.