Erano potenti, subdoli e colmi di un odio disperato. Lindsay sapeva che stavano aspettando la loro occasione, soppesando le probabilità, calcolandole. Avrebbero attaccato per uccidere, se avessero potuto farlo, ma soltanto quando avessero potuto massimizzare le loro possibilità di sopravvivenza.
Ma sapeva anche che, al passare di ogni giorno, con ogni accordo o concessione minore, un altro sottile strato di lacca coprente si stendeva sopra la breccia che si spalancava fra loro. Giorno dopo giorno un nuovo status quo lottava per affermarsi, una fragile distensione sostenuta soltanto dall’abitudine.
— Ehi, Segretario di Stato.
Lindsay si svegliò. Nella gravità fantasma dell’asteroide aveva finito in maniera impercettibile per adagiarsi sul fondo della sua caverna. Chiamavano quella sua tana l’“Ambasciata”. Con l’approvazione dell’Atto d’Integrazione, Lindsay si era trasferito all’interno della roccia insieme al resto della DMF.
Era stato Paolo a parlare. Fazil era con lui. I due giovani indossavano dei poncho ricamati e delle rigide corone di plastica che trattenevano le loro fluttuanti criniere, le quali ricadevano fino alle spalle.
I batteri cutanei li avevano colpiti duramente. Ogni giorno avevano un aspetto peggiore. Il collo di Paolo era talmente infiammato che la sua gola pareva tagliata. L’orecchio sinistro di Fazil era pure infettato: teneva la testa inclinata su un lato.
— Vogliamo farti vedere qualcosa — disse Paolo. — Puoi venire con noi, signor Segretario? In silenzio. — La sua voce era gentile, i suoi occhi color nocciola tanto limpidi e innocenti che Lindsay seppe subito che aveva in mente qualcosa. L’avrebbero ucciso? Non ancora. Lindsay si allacciò un poncho e lottò con i nodi complicati dei suoi sandali. — Sono a vostra disposizione — disse infine.
Entrarono galleggiando nel corridoio. I corridoi fra le cavità scavate nella roccia erano soltanto dei lunghi budelli di un metro di diametro. Gli uomini del clan dei Mavrides si proiettavano lungo questi passaggi con rapidi scatti da un lato all’altro, simili a quelli delle lucertole. Lindsay era il più lento. Il braccio ferito gli faceva particolarmente male, e la mano gli pesava come una mazza.
Planarono in silenzio attraverso la morbida luminosità gialla di una delle camere di fermentazione. Le estremità smussate, simili a capezzoli, di tre sacchi di “ware” organico sporgevano dentro alla stanza. Erano simili a cordoni di salsicce ficcati dentro a gallerie di pietra. Ogni galleria conteneva una serie di sacchi, collegati da filtri. Ogni sacco passava la sua emissione a quello successivo. L’ultimo sacco aveva in funzione una filiera, un motore a memoria-plastica, che ticchettava lentamente. Un tubo cavo di perfetta e limpida resina acrilica si arricciava in caduta libera, fumando mentre si essiccava.
Entrarono in un’altra nera galleria. Le gallerie erano tutte identiche, tutte perfettamente lisce. Non c’era bisogno di luce. Qualunque genio avrebbe potuto facilmente mandare a memoria il labirinto.
Alla sua sinistra Lindsay udì il lento clack-rasp clack-rasp di un cerchio dentato che stava scavando una galleria. I cerchi erano fabbricati a mano, i loro denti lavorati pure a mano nella plastica, e ognuno aveva un suono leggermente diverso. A lui erano utili: gli davano l’orientamento. In due anni avevano eroso più di ventimila tonnellate di minerale grezzo.
Dopo che il minerale era stato raffinato, gli scarti venivano sparati nello spazio. Tutto ciò che veniva lanciato via si lasciava un foro alle spalle. Un foro lungo dieci chilometri, nero come la pece, e pieno di nodi come una lenza ingarbugliata imperlata di caverne viventi, serre, stanze per il “ware” organico, e nascondigli privati.
Fecero una curva imboccando un budello che Linsday non aveva mai usato prima. Lindsay sentì il suono raschiante d’un tappo di pietra che veniva trascinato via.
Percorsero una breve distanza, riuscendo a passare a stento e contorcendosi davanti alla massa floscia d’un ventilatore disattivato. Mentre Lindsay ci passava davanti, strisciando nel buio, il ventilatore si animò con un rantolo.
— Questo è il nostro luogo segreto — disse Paolo. — Mio e di Fazil. — La sua voce echeggiò nel buio.
Qualcosa sfrigolò rumorosamente con uno schizzare di scintille roventi. Sorpreso, Lindsay si tese, preparandosi a combattere. Paolo impugnava un corto bastone bianco arso da una fiamma all’estremità. — Una candela — disse.
— Ah, sì, capisco — annuì Lindsay.
— Giochiamo col fuoco — spiegò Paolo. — Fazil ed io.
Si trovavano in una caverna-laboratorio, scavata dentro una delle grandi vene di pietra, all’interno di ESAIRS XII. Le pareti parevano di granito agli occhi non allenati di Lindsay: una roccia grigio-rosata punteggiata di minuscoli luccichii.
— Qui c’era quarzo — disse Paolo. — Biossidi di silicio. L’abbiamo estratto per ricavarne l’ossigeno, poi Kleo se n’è dimenticata. Così abbiamo perforato questa stanza noi stessi. Giusto, Fazil?
Fazil interloquì con passione: — Proprio così, signor Segretario. Abbiamo usato perforatrici portatili e plastica a espansione. Vedi dove la roccia si è infranta e si è staccata? Abbiamo nascosto i frammenti fra i detriti destinati al lancio, e così nessuno se n’è accorto. Abbiamo lavorato per giorni e giorni, mettendo da parte i pezzi più grossi.
— Guarda — disse Paolo. Toccò la parete, la pietra s’increspò nella sua mano e venne via. In una cavità scavata nella ruvida roccia e grande quanto un armadio, galleggiava un macigno oblungo, che era sorretto da un cavo. Paolo ruppe il cavo e tirò fuori il macigno. Si muoveva con la lentezza di una lumaca. Paolo lo aiutò a frenare la sua inerzia.
Era una scultura da due tonnellate: rappresentava la testa di Paolo. — Un lavoro molto bello — disse Lindsay. — Posso? — Fece scorrere la punta delle dita sullo zigomo estremamente liscio e lucido. Gli occhi, ampi e vigili, che avevano un incavo per raffigurare le pupille, erano grandi quanto le sue mani tese. C’era un debole sorriso su quelle enormi labbra.
— Quando ci hanno mandato qui fuori, sapevamo che non saremmo mai più tornati indietro — disse Paolo. — Noi saremmo morti quaggiù, e perché? Non perché la nostra genetica fosse difettosa. Noi siamo una buona schiatta. I Mavrides dominano… - Adesso parlava più in fretta, scivolando nello slang del Consiglio dell’Anello.
Fazil annuì in silenzio.
— È soltanto una cattiva percentuale. Il caso. Siamo stati bruciati dal caso prima ancora di avere vent’anni. Non è possibile eliminare il caso. Alcune delle linee genetiche sono destinate a cadere, cosicché le altre possano sopravvivere. Se non fossimo stati Fazil ed io, sarebbe toccato a qualche altro nostro compagno di culla.
— Capisco — annuì Lindsay.
— Siamo giovani e costiamo poco. Ci buttano in mezzo alle fauci del nemico, cosicché l’inchiostro rimanga nero e non diventi rosso, il credito non diventi debito. Ma siamo vivi, io e Fazil. C’è qualcosa dentro di noi. Non vedremo mai il dieci per cento della vita che vedranno gli altri, lì a casa. Ma siamo stati qui. Esistiamo veramente.
— Vivere è meglio — disse Lindsay.
— Tu sei un traditore — aggiunse Paolo, senza alcun risentimento. — Senza una linea genetica, sei senza sangue. Sei soltanto un sistema.
— Ci sono cose più importanti del vivere — disse Fazil.
— Se aveste abbastanza tempo, potreste vivere più a lungo di questa guerra — rispose Lindsay.
Paolo sorrise. — Questa non è una guerra. Questa è evoluzione. Credi di poter sopravvivere a questo?
Lindsay scrollò le spalle. — Forse. E se dovessero arrivare gli alieni?