Paolo lo fissò sgranando gli occhi. — Tu ci credi, agli alieni?
— Forse.
— Tu sei un tipo a posto — disse Paolo.
— Come posso aiutarvi? — domandò Lindsay.
— Si tratta dell’anello di lancio. Abbiamo in programma di lanciare questa testa. Un lancio obliquo, velocità massima, massima potenza, fuori dal piano dell’eclittica. Forse un giorno qualcuno la vedrà. Forse qualcosa, fra cinquecento milioni di anni, quando non ci sarà più alcuna traccia di vita umana, la raccoglierà, la mia faccia. Non ci sono detriti fuori del piano dell’eclittica, nessuna possibilità di collisione, soltanto il morto vuoto dello spazio. Ed è buona, solida, dura roccia. A questa distanza, il Sole potrebbe diventare una gigante rossa, e riscaldarla appena. Potrebbe rimanere in orbita fino a quando il Sole avrà raggiunto lo stadio di nana bianca, forse fino a quando sarà ridotto a un ammasso di cenere nera, fino a quando la Galassia non sarà esplosa oppure il cosmo non si sarà divorato tutto. La mia immagine, per sempre.
— Soltanto che, prima, dobbiamo lanciarla — concluse Fazil.
— Al Presidente non piacerà — obiettò Lindsay. — Il primo trattato che abbiamo firmato dice: niente più lanci per tutta la sua durata. Forse più tardi, quando la nostra reciproca fiducia si sarà rafforzata.
Paolo e Fazil si scambiarono un’occhiata. Lindsay seppe subito che la cosa gli era sfuggita di mano.
— Sentite — disse. — Voi due avete parecchio talento. Dal momento che l’anello di lancio non è in funzione, avete un sacco di tempo a disposizione. Potreste scolpire le teste di tutti noi.
— No! — urlò Paolo. — È fra noi due, e basta.
— E tu, Fazil? Non ne vorresti una?
— Siamo morti — rispose Fazil. — Per fare questa abbiamo impiegato due anni. C’era soltanto il tempo di farne una. Il caso ci ha bruciati entrambi. Uno di noi due ha dovuto dare tutto per niente. Così, abbiamo deciso. Fagli vedere, Paolo.
— Non dovrebbe guardare — ribatté Paolo, risentito. — Lui non capisce.
— Voglio che lui lo sappia, Paolo — ribadì Fazil in tono severo. — Perché io devo eseguire e tu guidare. Mostraglielo, Paolo.
Paolo portò la mano sotto il suo poncho e tirò fuori una scatola di acrilico trasparente con il coperchio incernierato. Dentro si vedevano due cubi di pietra, cubi neri con dei punti bianchi sulle superna. Dadi.
Lindsay si umettò le labbra. Li aveva visti nel Consiglio dell’Anello: azzardo endemico. Non soltanto per i soldi, ma per il nocciolo stesso della personalità. Accordi segreti. Giochi di dominio. Sesso. Le lotte all’interno delle linee genetiche, fra gente che sapeva con assoluta certezza di essere alla pari. I dadi erano veloci e definitivi.
— Posso aiutarvi — disse Lindsay. — Negoziamo.
— Dovremmo essere in servizio. A monitorare la radio. Noi ce ne andiamo, signor Segretario.
— Vengo con voi — fece Lindsay.
I due plasmatori tornarono a sigillare il coperchio di pietra del loro laboratorio segreto, allontanandosi in fretta nel buio. Lindsay li seguì meglio che poteva.
I Plasmatori avevano piazzato dischi di ascolto dappertutto nell’asteroide. I crateri da impatto a forma di scodella erano fatti su misura per la loro rete camuffata. Tutte le antenne facevano capo a un processore centrale, i cui delicati semiconduttori erano ospitati in una robusta consolle di acrilico. Fessure aperte nella consolle contenevano cassette di nastro da registrazione confezionate in casa, che scorrevano in continuazione davanti a una dozzina di testine diverse. Un’altra apertura sul banco di acrilico ospitava un display a cristalli liquidi per la registrazione video, e c’era anche una tastiera con le lettere scritte a mano.
I due genetici passavano al vaglio le bande d’onda, esaminando lo spettro generale delle trasmissioni del cartello. La maggior parte delle bande possedevano sistemi automatici di cancellazione della statica, impulsi anonimi che inquinavano gli impulsi significativi. — Qui c’è qualcosa — annunciò Paolo. — Triangolalo, Fazil.
— È vicino — disse Fazil. — Oh… soltanto il pazzo.
— Cosa? — intervenne Lindsay. Un enorme scarafaggio verde chiazzato d’un vivido violetto passò davanti a loro con uno sbattere d’ali.
— Quello che indossa sempre la tuta spaziale. — I due si guardarono. Lindsay lesse il loro sguardo. Stavano pensando alla puzza di quell’uomo.
— Sta parlando? — chiese Lindsay. — Inserisciti, per favore.
— Quello parla sempre — replicò Paolo. — Canta per la maggior parte del tempo. Delira dentro un canale aperto.
— Ha addosso la nuova tuta spaziale — si affrettò a informarli Lindsay. — Fatemelo ascoltare.
Udì il Dep Tre: — … granulato come il viso di mia madre. E mi spiace di non aver salutato il mio amico Marte. Mi spiace anche per il Carnevale. Sono a chilometri di distanza, e quel sibilo… Pensavo che fosse un nuovo amico che cercava di parlare. Ma non lo è. È un piccolo foro sulla mia schiena, dove ho incollato le bombole. Le bombole funzionano bene, il buco funziona meglio. Sono io e le mie due pelli, tra poco entrambe belle gelide…
— Cerca di chiamarlo! — esclamò Lindsay.
— Ti ho detto che tiene il canale aperto. Quell’unità è vecchia di duecento anni e forse più. Non può sentirci mentre sta parlando.
— Non ho intenzione di riarrotolarmi, me ne rimarrò qui fuori. — La sua voce era più debole. — Non c’è aria per parlare. Non c’è aria per ascoltare. Così, cercherò di uscir fuori. C’è soltanto una chiusura-lampo. Con un po’ di fortuna riuscirò a sgusciar fuori completamente. — Vi fu un leggero crepitio di statica. — Addio, Sole. Addio, Stelle. Grazie per…
Le parole andarono perdute nel sibilo della decompressione. Poi il crepitio della statica riprese. Continuò molto a lungo.
Lindsay rifletté. Poi parlò con calma. — Ero io il vostro alibi, Paolo?
— Cosa? — Paolo era scosso.
— Avete sabotato la sua tuta. E poi avete fatto attenzione a non trovarvi qui quando avreste potuto aiutarlo.
Paolo era pallido. — Non ci siamo mai avvicinati alla sua tuta, lo giuro!
— Allora perché non eravate qui al vostro posto?
— È stata Kleo a predispormi! — urlò Paolo. — Ian arriva, lo dicono i dadi, dice! Io dovrei essere pulito!
— Chiudi il becco, Paolo. — Fazil lo afferrò per un braccio.
Paolo cercò d’imporgli silenzio con un’occhiataccia, poi si rivolse a Lindsay: — Sono stati Kleo e Ian. Odiano la mia fortuna… — Fazil gli diede uno scrollone.
Paolo gli tirò una sberla di traverso alla faccia.
Fazil cacciò un urlo e gettò le braccia intorno a Paolo, tenendolo stretto a sé. Paolo parve afflitto. — Ero scombussolato — disse. — Ho mentito su Kleo: lei ci ama tutti. È stato un incidente. Un incidente.
Lindsay se ne andò. Si precipitò lungo le gallerie, passando davanti ad altro “ware” organico e ad una serra dove un ventilatore soffiava via con forza l’odore di fieno appena tagliato.
Entrò in una caverna dove dei genera-luce risplendevano di un rosso cupo attraverso una membrana permeabile ai gas. La stanza di Nora si trovava su una laterale della caverna, bloccata dalla massa ansimante del suo ventilatore privato. Lindsay l’oltrepassò sul lato dell’esalatore, schiacciando il corpo contro la parete, e accese le luci.
Degli arabeschi viola ricoprivano le pareti della stanza. Nora stava dormendo.
Le sue braccia e le sue gambe erano strette dai cavi. Dei sostegni le circondavano i polsi e i gomiti, le caviglie e i ginocchi. Dei mioelettrodi costellavano i gruppi di muscoli sotto la sua pelle nuda. Le braccia e le gambe si muovevano calme, all’unisono, su un lato e sull’altro, avanti e indietro. Un lungo carapace le creava una protuberanza sulla schiena, sopra i gangli nervosi che si diramavano dalla sua spina dorsale.