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Al robot mancava la scioltezza di una unità mech, ma mostrava un’allarmante vitalità. Era come uno scheletro animato, un animale vivisezionato, ridotto al riflesso nervoso d’un ginocchio sussultante.

Quando Lindsay uscì dal raggio d’azione del robot, questi si rimise in movimento con un clic, si allontanò dalla parete con un calcio, e impiantò il suo soffiapolvere nel condotto umido di un sacco di fermentazione.

Fazil strisciò sopra la testa e l’afferrò a ridosso della parete.

L’anello di lancio aveva una camera d’equilibrio di plastica translucida. Fazil staccò dalla parete una tuta spaziale verde imballata strettamente e scuotendola la fece uscire dall’involucro. Se l’infilò, chiudendo la chiusura lampo, e aprì la cerniera sulla parete della camera di equilibrio. Entrò.

Lindsay gli passò la cassa.

Fazil richiuse la cerniera della camera di equilibrio, e aprì la camera di carico. Una sezione rettangolare della parete ricurva scivolò verso l’alto, azionata da perni esterni caricati a molla. L’aria, con la forza di una raffica, si proiettò fuori nel vuoto dell’anello di lancio.

Le sottili pareti della camera di equilibrio vennero risucchiate verso l’interno, appiccicandosi come la pellicola d’una bolla di sapone a un traliccio interno di sostegno.

Cinque giganteschi scarafaggi e una folla di altri più piccoli schizzarono fuori dall’interno della cassa, zampettando disperatamente nel vuoto. Fazil strillò dietro la visiera trasparente. Agitò da ogni lato la testa mentre gli scarafaggi davano in convulsioni, sbattendo freneticamente le ali sottili come la carta. La decompressione fece gonfiare il loro addome. Una schiuma cominciò a trasudare dalle giunture e dal dorso. Uno scarafaggio si aggrappò, vomitando, alla plastica accanto al viso di Lindsay. Aveva mangiato qualcosa all’interno della cassa: qualcosa di rosso e vischioso.

Esili fili di vapore uscivano dalla cassa. Fazil non se ne accorse: stava sbattendo gli scarafaggi fuori, nell’anello di lancio.

A sua volta, Fazil attraversò il portello ed entrò nell’anello, tirando la cassa dietro di sé. Con un certo sforzo riuscì a piazzarla dentro la gabbia di lancio.

Ne emerse. Poi sbatté fuori dal portello della camera l’ultimo degli insetti morti, e lo chiuse. Una luce verde, che segnalava via libera, si accese, quando il portello chiuse automaticamente il circuito. Un LED esibì a grande velocità una sfilza di numeri quando l’energia per il lancio investì i magneti.

Fazil aprì la cerniera dell’ingresso, e l’aria si precipitò dentro. La camera di equilibrio di plastica sbatté come una vela. Fazil si arrampicò fuori tremando. Le sue grida erano attutite dalla tuta.

— Hai visto? — Aprì la propria chiusura lampo fino a metà torace. — Cosa c’era là dentro? Cos’è che stavano mangiando?

— Non li ho visti quando hanno imballato la cassa. Poteva essere qualunque cosa.

Fazil esaminò la manica macchiata della sua tuta. — Sembra sangue.

Lindsay si fece più vicino. — Non ha l’odore del sangue.

— Questa è una prova — dichiarò Fazil, battendo la mano sulla propria tuta.

Lindsay era pensieroso. I pirati gli avevano mentito. Avevano tentato di essere scaltri. Scaltri come i Plasmatori. Avevano tentato di far sparire qualcuno. — Sarebbe meglio, Fazil, se lanciassimo quella tuta.

— Hai visto Ian, oggi? — chiese Fazil.

— Non l’ho cercato.

Si guardarono. Lindsay non disse niente. Da sopra la spalla Fazil lanciò un’occhiata rapida e guardinga verso il LED. — È stata lanciata — annunciò.

— Se lancerai la tuta — disse Lindsay — io pulirò l’interno della camera di equilibrio.

— Non ho intenzione di lanciare questa tuta con la testa — dichiarò Fazil.

— Potresti metterla dentro una camera — disse Lindsay, indicandogliela. — Le vasche di fermentazione. — Pensò in fretta. — Se lo farai, ti aiuterò a far funzionare questo complesso alla massima capacità. Potrete produrre di nuovo le esche.

Lindsay staccò un’altra tuta dalla parete e ne scosse l’involucro per farla uscire. — Lanceremo la testa. Butteremo via la tuta. Prima faremo queste due cose, e poi parleremo. Va bene?

Il momento per attaccare era quando Lindsay aveva entrambe le gambe mezzo intrappolate nella tuta. Ma quel momento passò, e ancora una volta Lindsay seppe di aver guadagnato tempo. Lui e Fazil spinsero con le mani la testa dentro la camera di equilibrio. Fazil chiuse la cerniera della camera di equilibrio dietro di loro. Lindsay aprì il portello rettangolare.

La luce si riversò dentro l’interno vetroso dell’anello di lancio, riflettendosi sulle tracce di rame incassate lungo l’anello. Le sbarre d’acciaio della gabbia di lancio luccicavano di un sottile strato di vapore condensato, emanato dal corpo che si era trovato dentro la cassa.

Lindsay entrò nell’anello di lancio, spinse la testa dentro la gabbia e chiuse i ganci.

L’ombra di Fazil passò davanti alla luce. Aveva dato una spinta al portello per chiuderlo. Lindsay si girò di scatto e balzò in quella direzione.

Riuscì a far passare il braccio destro. Il portello rimbalzò sulla carne e sull’osso e la sua tuta cominciò subito a riempirsi di sangue.

Lindsay digrignò i denti quando incastrò la testa e le spalle oltre il portello. Ghermì la gamba di Fazil con la mano sinistra. Le punte delle sue dita affondarono nella cavità della caviglia del plasmatore, sbattendo lo stinco contro il bordo tagliente del portello. Vi fu un raschiare di ossa e Fazil, strappato all’indietro, perse la presa.

Lindsay scivolò dentro la camera di equilibrio, ancora stringendo la caviglia dell’altro. E conficcò il piede nell’inguine di Fazil. Mentre Fazil veniva colto dalle convulsioni, Lindsay gli afferrava la gamba e la piegava in due, incastrandogli un braccio dietro al ginocchio. Si sorresse appoggiandosi al corpo del plasmatore e diede uno strattone verso l’alto, torcendo fuori dal suo alveo il femore.

In preda all’agonia, Fazil si dibatté per trovare un appiglio. La sua mano colpì l’orlo del portello, chiudendolo del tutto. Il circuito dell’anello scattò, e la luce di via libera si accese.

Lindsay continuò a stringere la gamba e a torcerla. Due globi del suo stesso sangue gli galleggiarono davanti, all’interno della visiera. Sternuti, accecato, e Fazil gli tirò un calcio sul collo. Perse la presa e il plasmatore lo attaccò.

Buttò le braccia intorno al petto di Lindsay con la forza indotta dal panico e dalla disperazione. Lindsay ansimò, e una nera incoscienza gravò su di lui per quattro lunghi battiti cardiaci. Poi scalciò e il suo piede colse l’orlo del traliccio di sostegno della camera di equilibrio. Rotearono, aggrappati l’uno all’altro, Lindsay sbatté con forza il gomito sul lato della testa del plasmatore. La stretta si allentò, Lindsay ruotò il braccio libero sopra la testa di Fazil e gli afferrò il collo in una morsa a martello. Fazil strinse di nuovo le costole di Lindsay, che si piegarono sotto la forza delle sue braccia plasmorinforzate.

Lindsay incrociò lo sguardo di Fazil attraverso la visiera schizzata di sangue. Il suo volto s’increspò orridamente, e gli occhi di Fazil divennero vitrei per il terrore, mentre cercava di liberarsi a unghiate. Lindsay gli spezzò il collo.

A Lindsay parve di soffocare. La sua tuta non aveva un serbatoio dell’aria: era concepita soltanto per brevi permanenze. Doveva uscire fuori, all’aria.

Si girò in direzione dell’uscita dalla camera di equilibrio. Kleo era là. I suoi occhi erano scuri, affascinati e terrorizzati insieme. Stringeva la linguetta della chiusura lampo esterna.