Lindsay la fissò, ammiccando più volte quando una microgoccia di sangue gli si appiccicò alle sopracciglia. Kleo tirò fuori la sua arma favorita: un ago e il filo.
Lindsay si allontanò con un calcio dal corpo di Fazil. Cercò di afferrare la linguetta della chiusura lampo. Ma, con poche, agili mosse, Kleo la cucì.
Lindsay la tirò freneticamente. Il sottile filo aveva la consistenza dell’acciaio. Scrollò la testa. — No! — Il vuoto lo circondava. Era tagliato fuori. Le parole, che l’avevano sempre salvato, non potevano valicare quello spazio.
Lei si fermò lì, per vederlo morire. Sopra di lui, il LED continuava a palpitare. Le luci si stavano oscurando. Un lancio fuori dall’eclittica richiedeva la massima potenza.
Lindsay tirò con la sinistra il portello. Avvertì una debole vibrazione percorrergli le dita. Prese a calci il portello, selvaggiamente, per due, tre volte, e qualcosa cedette. Tirò con tutta la sua forza. Il portello si aprì, ma soltanto per l’ampiezza di un dito.
Le valvole di sicurezza saltarono. E tutte le luci si spensero. Poi il portello si aprì facilmente. L’oscurità era totale. Lindsay non sapeva quanto avrebbe impiegato la gabbia per il lancio, che stava girando in tondo, a fermarsi con una brusca frenata all’interno dell’anello. Se stava ancora vorticando a molti klick al secondo, gli avrebbe reciso il braccio o la gamba con la precisione di un laser.
Non poteva aspettare a lungo. L’aria all’interno della tuta era terribilmente densa del suo alito e del puzzo di sangue.
Si decise e spinse la testa fuori, nell’anello.
Sopravvisse.
Adesso doveva affrontare un altro problema. La gabbia era ferma in qualche punto all’interno dell’anello, bloccandolo. Se l’avesse raggiunta mentre cercava di arrivare all’esterno, avrebbe dovuto tornare indietro, sprecando aria. Sinistra o destra?
Sinistra. Senza respirare profondamente, cercando di favorire il braccio ferito, cominciò a procedere a balzi all’interno dell’anello. Serrò le braccia intorno al petto, usando solo le gambe, rimbalzando, slittando, facendo le capriole.
Trecento metri. Quella era la metà della lunghezza dell’anello. Tutto quello che avrebbe dovuto percorrere. Ma se avesse trovato l’uscita dell’anello di lancio bloccata dalla plastica mimetizzante? E se avesse già oltrepassato l’uscita nel buio senza accorgersi di niente?
La luce delle stelle. Lindsay balzò freneticamente verso l’alto, ricordandosi solo all’ultimo momento di afferrarsi all’orlo. La gravità di ESAIRS XII era così debole che il suo balzo l’avrebbe posto in orbita circumsolare.
Ancora una volta era fuori dall’asteroide, fra strisce d’un nero carbonizzato e le scorie biancastre delle esplosioni.
Balzò attraverso un cratere, mancando quasi il bordo opposto.
Quando avanzò, afferrandosi a un tratto di pietra pomice, la roccia si sbriciolò sotto le sue dita, e lui fu trascinato in una lenta orbita appena sopra la superficie.
Stava già rantolando quando trovò la seconda camera di equilibrio. Una pellicola di plastica incassata nella superficie di ESAIRS XII dove la Famiglia aveva per la prima volta trivellato la superficie. Scostò la pellicola e azionò i comandi del portello. Il braccio destro continuava a sanguinargli. Se lo sentiva rotto un’altra volta.
Il portello si aprì con uno schiocco. Lindsay scivolò dentro la camera di equilibrio e chiuse il portello esterno dietro di sé. Poi, ce n’era un secondo. Lindsay continuava ad ansimare: ogni respiro gli offriva meno aria respirabile, e sentiva in bocca il sapore del sangue.
Il secondo portello si aprì. Lindsay si tirò dentro, e vi fu un improvviso, rapido movimento nel buio. Lindsay sentì la sua tuta lacerarsi. Il gelido acciaio gli scalfì la gola, le sue gambe vennero afferrate, e urlò quando delle mani nel buio gli ghermirono il braccio, torcendoglielo.
— Parla!
— Signor Presidente! — subito rantolò Lindsay. — Signor Presidente!
Il coltello premuto contro la sua gola fu tirato indietro. Sentì l’assordante raschiare d’una sega e volarono scintille. In quell’improvvisa, vivida luce, Lindsay vide il Presidente, il Presidente della Camera, il Supremo Magistrato e il Terzo Senatore.
Le scintille si spensero. Il Presidente della Camera aveva usato la lama della sua piccola sega portatile contro un pezzo di tubo.
Il Presidente strappò via la testa della tuta di Lindsay.
— Il braccio, il braccio — guaì Lindsay.
Il Supremo Magistrato lo lasciò andare; il Terzo Senatore gli lasciò libere le gambe. Lindsay respirò profondamente, riempiendosi i polmoni d’aria.
— Fottuto attacco preventivo — disse il Presidente. — Li odio.
— Hanno cercato di uccidermi — disse Lindsay. — L’equipaggiamento… l’avete distrutto? Adesso possiamo andarcene.
— Qualcosa li ha messi in guardia — ringhiò il Presidente. — Eravamo al centro lanci con Paolo. Per imparare come fracassare i comandi del lancio. Poi sono arrivate Agnes e Nora. In quel momento avrebbero dovuto dormire… e tutt’a un tratto, nero come il carbone.
— È mancata la corrente — spiegò il Presidente della Camera.
— Io grido all’imboscata — proseguì il Presidente. — Soltanto che è tutto nero intorno. Il vantaggio ce l’hanno loro. Sono meno di noi, meno possibilità di colpire i propri compagni. Così mi dedico ai macchinari: infilo il coltello nei circuiti. Sentiamo ululare il Secondo Senatore, la carne si squarcia.
— Qualcosa di umido mi ha toccato la faccia — disse il Supremo Magistrato. La sua voce antica era greve d’una soddisfazione da giorno del giudizio. — L’aria era piena di sangue.
— Erano armati — riprese il Presidente. — Durante lo scontro ho preso questo. Toccalo, ’Stato.
Nel buio il Presidente premette qualcosa dentro la mano destra di Lindsay. Era delle dimensioni del suo palmo: un disco appiattito di pietra compatta, avvolto in un filo intrecciato. In certi punti era appiccicoso.
— Credo che li avessero fissati alle costole con nastro adesivo. Armi da far roteare. Bolas. Buone per strangolare. Questi fili sono abbastanza sottili da tagliare. Uno mi ha aperto il pollice fino all’osso quando l’ho agguantato.
— Dove sono gli altri del nostro gruppo? — domandò Lindsay.
— Avevamo un piano d’emergenza. I due deputati stavano pulendo, dopo Ian. Adesso sono a bordo della Consensus, stanno preparando il decollo.
— Perché avete ucciso Ian?
— Ucciso? — fece il Presidente della Camera. — Non c’è nessuna prova. È evaporato.
— La DMF non accetta una ferita senza restituirla — dichiarò il Presidente. — Pensavamo che ce ne saremmo andati entro la mattina, e abbiamo pensato, ah, lasciamogli credere che abbia disertato con noi! Carino, vero? — Sbuffò. — Il Senatore è con noi, ma due si sono smarriti. Comunque, si faranno vedere quassù, perché questo è il luogo dell’appuntamento. Il Secondo e il Terzo Magistrato stanno provvedendo al saccheggio, portando fuori un po’ di quel “ware” organico che scotta… quell’asso nella manica dei Plasmatori. Buon bottino per noi. Avevamo pensato di prendere il controllo dell’uscita. Se fosse necessario, potremmo saltare fino alla Consensus nudi. Potremmo farcela con soltanto un po’ di sangue dal naso e mal di pancia: vuoto spinto per trenta secondi.
L’eco di un picchiettio in fondo al corridoio si era impercettibilmente avvicinato come sottofondo delle loro voci. Continuò con una debole, ritmica precisione, il morbido ticchettio della plastica contro la pietra.
— Oh, dannazione! — esclamò il Presidente.
— Vado io — si fece avanti il Supremo Magistrato.
— Non è niente — intervenne il Terzo Senatore. — Un ventilatore che si sta assestando.