— Per niente bene — commentò. — Sei ferita, Nora?
Nora abbassò lo sguardo sulla sua gamba, la tastò. La rotula era sconnessa, sotto la pelle. Non c’era ancora dolore, soltanto un intorpidimento da shock. — Il mio ginocchio — disse, e tossì. — Ha ucciso Agnes.
— Ne rimangono soltanto tre — disse Kleo. — Il Presidente della Camera, il suo uomo, e il Terzo Senatore. Li abbiamo in pugno. Miei poveri amati tesori. — Buttò le braccia intorno a Paolo, il quale s’irrigidì per quel gesto improvviso, ma subito si rilassò posando la testa nel cavo fra il collo e la spalla di Kleo.
— Metto in funzione la centrale elettrica — disse Nora. Si spostò fino al pannello alla parete e attivò gli interruttori per la sequenza preliminare.
— Paolo e io copriremo gli ingressi e li aspetteremo — disse Kleo. — Nora, tu vai in sala radio. Chiama il Consiglio e fai rapporto. Ci ritroveremo qui. — Porse a Nora la candela e se ne andò.
Nora conficcò la candela sopra il pannello di controllo del tokamak, e attivò la centrale fino al primo stadio. Un bagliore bluastro filtrò attraverso lo schermo polarizzato antiesplosioni quando i campi magnetici cominciarono a dipanarsi all’interno della camera. Il tokamak produsse un tremito incerto mentre si autoinnescava raggiungendo la velocità della fusione. Una falsa luce solare avvampò giallastra mentre i flussi ionici entravano in collisione e bruciavano. Il campo si stabilizzò e d’un tratto tutte le luci si accesero.
Prendendola in mano con cautela, Nora spense la candela sfregandola contro la parete.
Paolo si strofinò irritato le vesciche causate dall’acido sulle mani. — Sono io quello, Nora — disse. — L’uno per cento destinato alla sopravvivenza.
— Lo so, Paolo.
— Mi ricorderò di voi, comunque. Di voi tutti, lì ho amato, Nora. Volevo dirtelo una volta ancora.
— È un privilegio e un onore sopravvivere nei tuoi ricordi, Paolo.
— Addio, Nora.
— Se mai ho avuto un po’ di fortuna — disse Nora — ora la do a te.
Lui sorrise, sollevando la fionda.
Nora se ne andò. Slittò rapidamente attraverso le gallerie tenendo una gamba rigida. Ondate di dolore la scavavano dentro, aggrovigliandole il corpo. Senza il granchio spinale non era più in grado di bloccare i crampi.
I pirati erano stati nella sala radio. Avevano fracassato tutto ciò che si trovava intorno a loro alla cieca, nel buio, all’impazzata. I trasmettitori erano un relitto tagliato a colpi di sega, contorto e sbriciolato; la consolle era stata strappata via e scaraventata da parte.
Il fluido colava fuori dal display a cristalli liquidi. Nora tirò fuori l’ago e il filo dalla retina per i capelli e ricucì lo squarcio dello schermo. La CPU funzionava ancora; c’erano dei segnali che arrivavano dalle antenne paraboliche esterne. Ma i programmi per la decrittazione erano distrutti. Le trasmissioni del Consiglio dell’Anello erano soltanto una raccolta di farfugliamenti senza senso.
Si sintonizzò su una trasmissione propagandistica su una frequenza generale. Il televisore squarciato funzionava ancora, anche se perdeva risoluzione intorno ai bordi.
Ed eccolo là, il mondo esterno. Non c’era molto: parole e immagini, linee su uno schermo. Si passò con cautela la punta delle dita sopra il dolore bruciante al ginocchio.
Non riusciva a credere a ciò che le dicevano le facce sullo schermo, quello che le immagini mostravano. Era come se quel piccolo schermo durante i giorni del buio avesse in qualche modo fermentato, e il mondo dietro di esso stesse traboccando come una massa schiumeggiante, con tutti i suoi veleni “ware” organicizzati trasformati in vino. I volti degli uomini politici plasmatori erano illuminati da una luce stupefatta di trionfo.
Nora rimase a fissare lo schermo, come pietrificata. Le traumatizzate dichiarazioni dei capi dei Mechanist: uomini distrutti, donne spaventate, spogliati delle loro routines e dei loro sistemi. L’armamentario dei piani e delle contingenze dei Mech era stato eliminato come la rogna, mostrando la carne viva della loro umanità. Parlottavano, lottavano per assumere il controllo, ognuno contraddicendo il precedente. Alcuni con dei sorrisi stretti stretti che pareva gli fossero stati cuciti addosso con un intervento chirurgico, altri con gli occhi velati dalle nebbie d’una stupefazione religiosa di seconda mano, gesticolando vagamente, i loro volti luminosi come quelli dei bambini.
E i decani del complesso dell’accademia militare dei Plasmatori: i volti lisci tipici della Sicurezza, accomodanti, trionfanti, ancora troppo compiaciuti per quel colpo stupefacente per far trasparire il sospetto che era innato in loro. E l’intellighenzia, abbacinata, che faceva spericolate congetture, la loro obiettività ridotta a brandelli.
Poi ne vide uno. No, ce n’erano di più. Una dozzina. Erano giganteschi. Le loro gambe, da sole, erano alte come uomini, enormi masse di muscoli nodosi, ossa e tendini sotto la pelle tesa, lucida fino ad apparire levigata artificialmente. Indossavano delle gonne, grani luccicanti infilati su fili. Il loro petto possente era nudo, con uno sterno così smisurato da parere la carena di una nave. Confrontate con le gambe simili a tronchi d’albero e le massicce code sporgenti, le loro braccia erano lunghe e sottili, con delle dita agili dalle punte rigonfie e pollici curiosamente incavati. La loro testa era immensa, grossa quanto il tronco d’un uomo, spezzata da un grande sorriso cavernoso pieno di denti tozzi, squadrati, grossi come pollici. Pareva che non avessero orecchi, e i loro bulbi oculari neri, grandi come pugni, erano schermati da scabre palpebre e da membrane nittitanti grigiastre. Frange costolate, iridescenti, drappeggiavano le loro teste.
C’era gente che stava parlando con loro, impugnando telecamere. Plasmatori. Pareva quasi che si tenessero rannicchiati per paura degli alieni; avevano la schiena curva, si spostavano servilmente dall’uno all’altro strascicando i piedi. Nora si rese conto che ciò era dovuto alla gravità. Gli alieni usavano una gravità molto più intensa.
Erano veri! Si muovevano con grazia massiccia e rilassata insieme. Alcuni di loro tenevano in mano un blocco per appunti. Altri parlavano con una lingua stretta simile a quella degli uccelli, lunga quanto un avambraccio.
Le loro dimensioni da sole bastavano a dominare l’incontro. Non c’era niente di formale o di teatrale nel loro modo di agire; neppure la solennità riusciva a nascondere la natura quintessenziale di quell’incontro. Gli alieni non erano spaventati e neppure molto colpiti. Non c’erano guasconate, iattanza, e neppure mistica. Badavano al sodo. Come gli esattori delle tasse.
Paolo piombò dentro all’improvviso, gli occhi spiritati, i lunghi capelli intrisi di sangue. — Presto! Mi sono alle spalle! — Gettò un’occhiata tutt’intorno. — Dammi il coperchio di quel pannello!
— È finita, Paolo!
— Non ancora! — Paolo afferrò a mezz’aria l’ampio coperchio della consolle. I fili gli penzolarono dietro come una scia. Paolo si catapultò attraverso la stanza e sbatté la consolle di traverso all’ingresso della galleria. Posta di piatto contro di essa, formava una rozza barricata. Paolo tirò fuori con uno scatto un tubo di resina epossidica dalla cintura e incollò il coperchio della consolle contro la pietra.
Su un lato era rimasto aperto un varco; Paolo tirò fuori la sua fionda e scagliò un proiettile in fondo al corridoio. Udirono, lontano, un ululato. Paolo incastrò il viso nel varco e lanciò in risposta una ululante risata.
— La televisione, Paolo! Notizie dal Consiglio! L’assedio è finito!
— L’assedio? - fece Paolo, voltandosi a lanciarle un’occhiata. — Che cosa diavolo ha a che fare con noi?