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— L’assedio, la guerra — spiegò Nora. — Non c’è mai stata nessuna guerra, è la nuova linea del partito. Ci sono stati soltanto degli… equivoci. Strettoie. — Paolo la ignorò, fissando la lontana estremità della galleria e preparando un altro colpo con la fionda. — Non siamo mai stati soldati. Nessuno di noi ha mai cercato di uccidere nessun altro. La razza umana è pacifica, Paolo. Siamo soltanto… buoni partner commerciali… Gli alieni sono qui, Paolo. Gli alieni.

— Oh, Dio — gemette Paolo. — Devo soltanto ucciderne altri due, ed è tutto, e ho già ferito un braccio alla donna. Prima aiutami ad ucciderli, e poi potrai raccontarmi tutto quello che vuoi. — Premette la spalla contro la barricata, aspettando che la colla epossidica si stabilizzasse.

Nora gridò attraverso uno dei fori degli strumenti della consolle, in direzione del buio: — Signor Presidente! Sono il diplomatico… voglio parlamentare!

Vi fu un attimo di silenzio, poi: — Pazza di una puttana! Vieni fuori e crepa!

— È finita, signor Presidente! L’assedio è stato tolto! Il sistema è in pace, ha capito? Gli alieni, signor Presidente. Sono arrivati gli alieni, sono qui già da giorni!

Il Presidente scoppiò in una risata. — Sicuro. Esci fuori, bimba. Prima manda fuori quel piccolo fottuto con la fionda. — Udì l’improvviso gemito della sega a mano.

Paolo la spinse da parte con un ringhio e scagliò un proiettile in fondo al corridoio. Udirono una mezza dozzina di clic secchi, quando il proiettile rimbalzò più volte laggiù. Il Presidente gracchiò trionfalmente: — Stiamo per mangiarvi — disse, in tono estremamente serio. — Mangeremo il vostro fegato. — Abbassò la voce. — Falli fuori, Segretario.

Nora balzò davanti a Paolo, afferrandolo con una mano, e urlò: — Abelard! Abelard, è vero! Lo giuro su tutto quello che c’è stato fra noi! Abelard, non sei stupido, lasciaci vivere, voglio vivere…

Paolo le serrò le mani sulla bocca e la tirò indietro. Lei si tenne aggrappata alla barricata, adesso saldamente incollata, guardando in fondo al corridoio. Là, una forma bianca stava venendo avanti fluttuando. Una tuta spaziale. Non una di quelle dei Mavrides, ma una di quelle rigonfie e corazzate della Red Consensus.

La fionda di Paolo era inutile contro la tuta. — Ci siamo — borbottò Paolo. — Le punte. — Lasciò Nora e tirò fuori una candela e una vescica piatta di liquido dall’interno della giubba. Avvolse la vescica intorno alla candela, legandola con un laccio della manica. Sollevò la bomba. — Adesso bruceranno.

Nora lanciò la sciarpa intorno al collo di Paolo. Gli piantò il ginocchio ancora sano sulla schiena e tirò con forza selvaggia. Paolo produsse un suono come quello d’una cornamusa rotta e si allontanò dall’ingresso con un calcio. Artigliò la sciarpa. Era forte. Era quello che aveva la fortuna dalla sua.

Nora tirò con maggiore forza. Paolo tirava con altrettanta energia. I suoi pugni erano talmente serrati intorno al tessuto grigio della cintura che il sangue colava fuori dalle lacerazioni a forma di mezzaluna incise sui palmi dalle sue stesse unghie.

Si udirono delle grida in fondo al corridoio. Delle grida e il rumore della sega portatile.

E adesso il nodo che non aveva mai lasciato le sue spalle si era diffuso nelle sue braccia, e Paolo stava tirando, contrastandola con muscoli che parevano modellati nel ferro. Non respirava, nell’improvviso silenzio che seguì. Il bordo ruvido della sciarpa era scomparso dentro il suo collo. Era morto. Ma tirava ancora.

Nora lasciò che le estremità della sciarpa scivolassero fuori dalle sue dita rattrappite. Paolo cominciò a ruotare lentamente in caduta libera, il volto annerito, le braccia serrate là dove si trovavano bloccate. Pareva che si stesse strangolando da sé.

Una mano guantata intrisa di sangue spuntò dal foro a forma di mezzaluna sul suo lato della barricata. Un ronzio ovattato arrivò dall’interno della tuta spaziale. Stava cercando di parlare.

Lei corse al suo fianco. Lui appoggiò la testa contro il lato esterno della barricata, gridando dall’interno del casco: — Morti! — e aggiunse: — Sono morti!

— Togliti il casco! — disse Nora.

Lui scrollò la spalla destra all’interno della tuta. — Il mio braccio — disse.

Nora infilò una mano attraverso la fessura e l’aiutò a svitarsi il casco. Questo si staccò con uno schiocco e un risucchio d’aria e il familiare puzzo del suo corpo. Sotto le sue narici c’erano delle croste di sangue mezze disseccate e una nell’orecchio destro. Era stato decompresso.

Facendo molta attenzione, Nora gli passò la mano sulla guancia sudata. — Siamo vivi, no?

— Volevano ucciderti — lui spiegò. — Non potevo lasciarglielo fare.

— Lo stesso per me. — Nora si voltò e guardò in direzione di Paolo. — È stato come un suicidio, ucciderlo. Credo di essere morta.

— No. Noi apparteniamo l’uno all’altro. Dillo, Nora.

— Sì, è vero — lei annuì, e schiacciò il volto alla cieca contro il varco che li separava. Lui la baciò con l’intenso sapore salato del sangue.

La demolizione era stata completa. Kleo aveva finito il lavoro, era strisciata fuori con addosso una tuta spaziale e aveva inzuppato l’interno della Red Consensus con un appiccicoso veleno a contatto.

Ma Lindsay era arrivato là prima che lei se ne andasse. Aveva saltato il varco dello spazio vuoto, decomprimendosi, per prelevare una delle tute spaziali corazzate. Aveva sorpreso Kleo nella cabina di comando. Con la sua tuta sottile non era stata assolutamente in grado di tenergli testa; lui aveva lacerato la tuta, e lei era morta per il suo stesso veleno.

Perfino il robot di famiglia aveva sofferto danni. I due deputati l’avevano lobotomizzato quand’erano passati attraverso la stanza delle esche. Le operazioni accanto all’anello di lancio si svolgevano ad una velocità frenetica. Il robot, spogliato del cervello, caricava una tonnellata dopo l’altra di carbone grezzo dentro il già stracolmo ed eruttante “ware” organico, una schiumante massa di plastica veniva emessa a fiotti dentro l’anello di lancio, che era stato anch’esso rovinato dalla slittata della gabbia di lancio. Ma questo era il minore dei loro problemi.

Il peggiore, era la sepsi. I microrganismi portati dallo Zaibatsu stavano seminando la distruzione fra i delicati biosistemi di ESAIRS XII. Cinque settimane dopo il massacro, il giardino di Kleo era ridotto a una lebbrosa parodia.

Le creature rimodellate del giardino della plasmatrice ammuffivano e si sbriciolavano al crudo tocco dell’umanità. La vegetazione assumeva strane forme mentre soffriva e si deformava, i suoi steli si arricciavano come tanti cavaturaccioli in una perversione della crescita che li vedeva imputridire e ridursi in polvere. Lindsay visitava tutti i giorni il giardino e proprio la sua presenza contribuiva ad accelerare la corruzione. Quel posto aveva ormai l’odore dello Zaibatsu, e i polmoni gli facevano male a causa della nostalgia che provava per quell’amato olezzo.

Se l’era portato dietro. Non importava quanto velocemente si spostasse, si trascinava dietro la fatale scia del passato.

Lui e Nora non se ne sarebbero mai liberati. Non era soltanto il contagio o il suo braccio inutilizzabile. E neppure la galassia delle eruzioni cutanee che avevano sfigurato Nora per giorni e giorni, incrostando la sua pelle perfetta e riempiendo i suoi occhi di siliceo stoicismo. Risaliva ai tempi dell’addestramento che avevano condiviso, al danno che gli era stato fatto. Li rendeva solidali, partner, e Lindsay si era reso conto che quella era la cosa più bella che la vita gli avesse mai offerto.

Pensò alla morte mentre guardava il robot plasmatore intento al suo lavoro. Incessantemente, instancabilmente, questo caricava il minerale grezzo dentro le budella tese dal “ware” organico delle esche. Dopo che loro due fossero morti soffocati, quella macchina avrebbe continuato indefinitamente nella sua iperattiva parodia della vita. Avrebbe potuto spegnerlo, sì, ma provava una certa affinità con esso. In qualche modo quella sua cieca ed entusiastica persistenza lo incoraggiava. E il fatto che stesse pompando tonnellate di plastica schiumeggiante nell’anello di lancio, rovinandolo, significava che i pirati avevano vinto. Lui non poteva sopportare l’idea di derubarli di quell’inutile vittoria.