A mano a mano che la loro aria diventava più fetida, furono costretti a ritirarsi, chiudendo ermeticamente le gallerie alle loro spalle. Rimasero vicino agli ultimi giardini industriali ancora funzionanti, respirando quanto meno possibile per non consumare l’aria che profumava di fieno, facendo l’amore e cercando di guarirsi a vicenda.
Con Nora, Lindsay rientrò nella vita dei Plasmatori, con le sue sottigliezze, le sue allusioni, il suo brio doloroso. E, a poco a poco, lentamente, insieme a lui, i lati più taglienti di Nora vennero smussati. Lei perse le sue peggiori stranezze, i nodi più duri da sciogliere, i più insopportabili livelli di tensione.
Abbassarono la corrente, cosicché le gallerie divennero più fredde, ritardando il diffondersi del contagio. Durante la notte si stringevano l’uno all’altro per scaldarsi, avvolti in un sudario grande come un tappeto che Nora aveva intessuto.
Nora non era disposta ad arrendersi. Aveva un nucleo d’energia innaturale che Lindsay non era in grado di eguagliare. Per giorni aveva lavorato alle riparazioni in sala radio, anche se sapeva che era inutile.
Il Servizio di Sicurezza dell’Anello dei Plasmatori aveva smesso di trasmettere. I loro avamposti militari erano diventati una fonte d’imbarazzo. I Mechanist li stavano evacuando, e rimpatriavano gli equipaggi dei Plasmatori riportandoli al Consiglio dell’Anello con squisita cortesia diplomatica. Non c’era mai stata nessuna guerra. Nessuno combatteva. I cartelli si stavano garantendo il controllo dei loro clienti pirati rappacificandoli in tutta fretta.
Tutto questo li stava aspettando, se soltanto fossero riusciti a far sentire la loro voce. Ma le loro trasmittenti erano rovinate; i circuiti non erano sostituibili e nessuno di loro due era un tecnico. Lindsay aveva accettato la morte. Nessuno sarebbe venuto a salvarli: avrebbero certamente pensato che l’avamposto fosse stato spazzato via. Alla fine, pensò Lindsay, qualcuno sarebbe venuto a controllare, ma non prima di molti anni ancora.
Una notte, dopo aver fatto l’amore, Lindsay rimase sveglio, gingillandosi con il braccio meccanico del pirata morto. L’affascinava, ed era fonte di appagamento: morendo giovane, pensava Lindsay, era per lo meno sfuggito a quello. Il suo braccio destro aveva quasi completamente perduto ogni sensibilità, i nervi avevano continuato a deteriorarsi da quando c’era stato l’incidente con la pistola, e le ferite che si era fatto in battaglia erano servite soltanto ad accelerare il deterioramento.
— Quei dannati cannoni — disse ad alta voce. — Un giorno, qualcuno troverà questo posto. Dovremmo fare a pezzi quei fottuti cannoni, mostrare al mondo che avevamo un po’ di decenza. Lo farei io, ma non sopporto l’idea neppure di toccarli.
Nora era insonnolita. — E allora? Non funzionerebbero lo stesso.
— Certo… sono disarmati. — Quello era stato uno dei suoi trionfi. — Ma potrebbero venir riarmati. Sono il male, tesoro. Dovremmo fracassarli.
— Se te ne importa così tanto… — Gli occhi di Nora si aprirono. — Abelard, e se ne facessimo sparare uno?
— No — lui ribatté prontamente.
— E se facessimo saltare la Consensus con il raggio a particelle? Qualcuno la vedrebbe.
— Vedrebbe cosa? Che siamo criminali?
— Nel passato si sarebbe trattato soltanto di pirati morti. La solita faccenda. Ma oggi, adesso, sarebbe uno scandalo. Qualcuno dovrebbe comunque venirci a cercare. Per assicurarsi che non succeda mai più.
— Rischieresti questa facciata di pace che stanno mostrando agli alieni? Soltanto per la vaga probabilità che qualcuno ci salvi? Sparare? Immagina quello che ci farebbero se dovessero arrivare!
— Che cosa mai? Ucciderci? Siamo già morti. Io voglio che viviamo.
— Come criminali? Disprezzati da tutti?
Nora sorrise amaramente. — Oh… non è niente di nuovo per me.
— No, Nora. Ci sono dei limiti.
Lei lo accarezzò. — Capisco.
Due notti più tardi si svegliò in preda al terrore. L’asteroide vibrava tutto. Nora non c’era. Dapprima pensò che fosse l’urto di un meteorite, un avvenimento raro ma terrificante. Tese l’orecchio per riuscire a sentire l’eventuale sibilo della fuoriuscita dell’aria, ma le gallerie erano ancora intatte. Quando vide il volto di Nora, si rese conto della verità. — Hai sparato con il cannone!
Nora era scossa. — Ho mollato la Consensus prima di colpirla. Sono uscita in superficie. C’è qualcosa di strano, lassù, Abelard. La plastica è colata fuori dell’anello di lancio, nello spazio.
— Non voglio ascoltare.
— Ho dovuto farlo. Per noi. Perdonami, tesoro. Giuro che non ti ingannerò mai più.
Lindsay rimuginò tra sé.
— Pensi che verranno?
— È una probabilità. Volevo una probabilità per noi. — Era distratta. — Tonnellate di plastica spremute fuori come il dentifricio. Come un verme gigantesco.
— Un incidente — disse Lindsay. — Dovremo dir loro che si è trattato di un incidente.
— Adesso distruggerò il cannone. — Nora lo guardò con aria colpevole.
— Quello che è fatto è fatto. — Sorrise tristemente e allungò la mano verso di lei. — Aspettiamo.
Da qualche parte nei suoi sogni, Lindsay udiva un insistente martellio. Come sempre, Nora si svegliò per prima e fu subito sul chi vive. — Rumore, Abelard.
Lindsay si svegliò con gran pena, con le palpebre appiccicate. — Cos’è? Una fuoriuscita?
Nora scivolò fuori dalle lenzuola, proiettandosi lontano dal suo fianco con un piede nudo. Accese le luci. — Alzati, tesoro. Qualunque cosa sia, l’affronteremo di petto.
Non era la maniera con cui Lindsay avrebbe preferito incontrare la morte, ma era disposto ad assecondarla. S’infilò calzoni e poncho muniti di lacci.
— Non c’è nessuna brezza — osservò Nora, mentre lui lottava per rifare un complicato nodo da riplasmatore. — Non si tratta di decompressione.
— Allora è una spedizione di salvataggio… i Mech!
Si affrettarono a raggiungere la camera di equilibrio attraverso le gallerie buie.
Uno dei soccorritori, doveva trattarsi di un tipo coraggioso, era riuscito a far passare la sua enorme mole attraverso la camera di equilibrio e ad entrare nella camera di carico. Si stava ripulendo con grande pignoleria le enormi dita, simili agli artigli di un uccello, della sua tuta spaziale, quando Lindsay sbirciò fuori dalla galleria di accesso, socchiudendo gli occhi e proteggendoseli con una mano.
L’alieno aveva un potente riflettore montato sul ponte del naso del cavernoso casco della sua tuta spaziale. La luce che scaturiva dal riflettore era vivida come quella di una fiamma ossidrica, un aspro azzurro elettrico fortemente colorato dall’ultravioletto. La tuta spaziale era bruna e grigia, punteggiata da prese per le più varie spine e costolata a fisarmonica intorno alle giunture.
Il raggio luminoso passò sopra di loro e Lindsay strizzò gli occhi, girando il viso dall’altra parte. — Mi potete chiamare Guardiamarina — disse l’alieno, in inglese commerciale.
Con grande cortesia si allineò sul loro asse verticale, allungandosi sopra di sé per spingersi con le dita lungo la parete.