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— Tutto questo è inutile — esplose Lindsay. — Non cercate di convincermi a far qualcosa di cui mi pentirò. Io ho uno spettacolo da metter su, non ho tempo per queste…

— Chiudi il becco, tu — ribatté l’uomo. La porta d’acciaio scivolò, aprendosi in parte, e rivelando un pacchetto ripiegato di vinile trasparente. — Mettitelo — gli ingiunse l’uomo. — Puoi entrare.

Lindsay dispiegò il fagotto e lo svuotò. Dentro c’era una tuta per decontaminazione a tutta lunghezza — Su, fai presto — lo sollecitò il medico nero. — Potresti essere sotto sorveglianza.

— Non me n’ero reso conto — rispose Lindsay. Lottò per infilarsi i calzoni con gli stivali incorporati. — Questo è un grande onore. — Si addentrò nella metà superiore, che comprendeva guanti e casco, infine strinse la cintura.

La porta della camera di equilibrio si aprì del tutto con un crepitio. — Entra — disse l’uomo. Lindsay entrò e la porta tornò a chiudersi alle sue spalle. Il vento agitò la polvere, una pioggia leggera e sudicia cominciò a cadere. Una scheletrica telecamera robot si avvicinò a brevi passi sulle quattro gambe tubolari e puntò le lenti sulla porta.

Passò un’ora. La pioggia cessò e un paio di congegni addetti alla sorveglianza si librarono là sopra, silenziosi come aquiloni. Una violenta tempesta di sabbia si levò a nord, nella zona industriale abbandonata. La telecamera continuò ad osservare.

Lindsay riemerse dalla camera di equilibrio ondeggiando un po’. Appoggiò una valigetta diplomatica nera sul pavimento accanto a sé e prese a contorcersi per uscire dalla tuta decontaminante. Ricacciò la tuta nella nicchia. Poi ridiscese con grazia esagerata i gradini di pietra.

L’aria puzzava. Lindsay si fermò e sternuti. — Ehi — disse la telecamera. — Signor Dze, vorrei scambiare una parola con lei… signor Dze.

— Se vuoi una parte in questa recita dovrai comparire di persona — rispose Lindsay.

— Mi stupisci — osservò la telecamera. Parlava in giapponese commerciale. — Devo ammirare il tuo coraggio, signor Dze. I Medici Neri hanno il più immondo tipo di reputazione che si possa immaginare. Avrebbero potuto farla a pezzi per recuperare le sostanze chimiche del suo corpo.

Lindsay s’incamminò verso nord con le scarpe sottili che si trascinavano nel fango. La telecamera si mise a seguirlo. La sua gamba posteriore sinistra cigolava.

Lindsay scese una bassa collina addentrandosi in un frutteto dove gli alberi caduti, coperti da un denso strato di fuliggine nera, formavano un lungo boschetto scheletrico. Più in basso rispetto al frutteto c’era uno stagno coperto di sudicia schiuma con una fatiscente casa da tè sulla sua riva. L’edificio di legno e ceramica, un tempo elegante, era crollato, ridotto ormai a un mucchio di legname secco e marcio. Lindsay tirò un calcio a una delle assi e scoppiò in una tosse convulsa all’esplosione del legno sbriciolato. — Qualcuno dovrebbe gettar via questa roba — borbottò.

— E dove potrebbe metterla? — chiese la telecamera.

Lindsay gettò in fretta un’occhiata tutt’intorno a sé. Gli alberi lo nascondevano alla vista di eventuali osservatori. Fissò la macchina. — La tua telecamera ha bisogno di una revisione — dichiarò.

— Era il meglio che potessi permettermi — disse la telecamera.

Lindsay fece oscillare avanti e indietro la sua valigetta nera. — Pare piuttosto lenta e debole.

Il robot arretrò prudentemente di un passo. — Hai un posto dove alloggiare, signor Dze?

Lindsay si sfregò il mento. — Me ne stai forse offrendo uno?

— Non dovresti rimanere all’aperto. Non porti neppure una maschera.

Lindsay sorrise. — Ho detto ai medici che ero protetto da antisettici molto progrediti. Questo li ha molto colpiti.

— Devono essere stati colpiti per forza. Nessuno qui respira l’aria grezza. A meno che tu non voglia che i tuoi polmoni finiscano per assomigliare a questo boschetto. — La telecamera esitò. — Mi chiamo Fyodor Ryumin.

— Lieto di fare la tua conoscenza — rispose Lindsay in russo. Gli avevano iniettato la vasopressina attraverso la tuta e il suo cervello gli dava una sensazione d’impossibile acutezza. Si sentiva intollerabilmente intelligente. Passare dal giapponese al suo russo, di cui aveva scarsa dimestichezza, gli parve facile come cabiare nastro.

— Ancora una volta mi stupisci — gli disse la telecamera in russo. — Stimoli la mia curiosità. Capisci il termine “stimolare”? Non è molto comune nel russo commerciale. Per favore, segui il robot. La mia abitazione non è lontana. Cerca di respirare poco.

L’abitazione di Ryumin era una piccola cupola rigonfia di plastica grigioverde vicino al vetro macchiato e rotto di uno dei pannelli-finestra. Lindsay abbassò la chiusura-lampo della camera d’equilibrio in tessuto, ed entrò.

L’aria pura all’interno gli provocò un accesso di tosse. La cupola era piccola, con un diametro di circa dieci passi. Un groviglio di cavi occupava il pavimento, collegando cataste di apparecchiature video a un’ammaccata galleria tenuta sollevata da terra da uno strato di tegole di ceramica. Un palo centrale, anch’esso avvolto da cavi elettrici, sorreggeva un filtro dell’aria, una lampadina, e la base d’un complesso di antenne.

Ryumin sedeva a gambe incrociate su un tatami, con le mani su dei joystick portatili. — Lascia che prima mi occupi del robot — disse. — Sarò da te fra un momento.

Il largo volto di Ryumin aveva un’impronta vagamente asiatica, ma i suoi capelli, che si andavano rarefacendo, erano biondi. Le macchie dell’età gli chiazzavano le guance. Le sue nocche avevano le rughe massicce comuni ai molto anziani. C’era qualcosa di sbagliato nelle sue ossa. I polsi erano troppo sottili per il suo corpo tozzo, e il cranio appariva stranamente delicato. Due dischi adesivi neri erano attaccati alle tempie. Un filo sottile si dipartiva da ognuno di essi, gli scendeva dietro la schiena e si perdeva in mezzo alla giungla dei cavi.

Gli occhi di Ryumin erano chiusi. Allungò la mano alla cieca e batté un dito su un interruttore accanto al suo ginocchio. Si staccò i dischi dalle tempie e aprì gli occhi. Erano di un azzurro vivo.

— C’è abbastanza luce qua dentro? — chiese.

Lindsay lanciò un’occhiata alla lampadina sopra di loro. — Credo di sì.

Ryumin si batté la mano sulla tempia. — Innesto di chip lungo i nervi ottici — spiegò. — Soffro un po’ di bruciatura da video. Ho difficoltà a vedere qualunque cosa che non sia sulle linee di scansione.

— Sei un mechanist?

— Si vede? — chiese Ryumin, con tono ironico.

— Quanti anni hai?

— Centoquaranta. No, centoquarantadue. — Sorrise. — Non allarmarti.

— Non ho pregiudizi — lo rassicurò falsamente Lindsay. Provava confusione, e con questa gli effetti del suo addestramento scivolavano via. Ricordava il Consiglio dell’Anello e le lunghe, odiate sedute anti-Mech. Il senso di ribellione lo richiamava a se stesso.

Scavalcò un groviglio di cavi e appoggiò la sua valigetta diplomatica su un basso tavolino. — Per favore, cerca di capirmi, signor Ryumin. Se questo è un ricatto, mi hai giudicato male. Non collaborerò. Se intendi farmi del male, allora fallo. Uccidimi adesso.

— Io non lo direi a voce troppo alta — lo ammonì Ryumin. — Gli aerei nel cielo possono bruciarti là dove ti trovi, dritto attraverso la parete della cupola.