— Gli alberi — rantolò. — Mio Dio, guardali!
— Sono cresciuti, da quando te ne sei andato — disse Margaret Juliano. — Vieni con me. Voglio mostrarti un altro progetto.
Lindsay sollevò lo sguardo attraverso il riflesso verso la sua casa di un tempo. Visti dall’alto, gli ampi terreni della casa confinavano con quello che un tempo era stato un animato complesso di ristoranti da poco prezzo e d’infima classe. Questi erano da tempo in declino e la casa dei Lindsay era in rovina. Poteva vedere gli squarci nei tetti di tegole rosse fatte con l’ardesia lunare fusa. La piattaforma d’atterraggio privata in cima alla torre di quattro piani era sepolta dall’edera.
All’estremità nord del mondo, su, lungo le pareti inclinate, una squadra di operai piccoli come formiche demoliva, lentamente, gli scheletrici resti di uno degli ospedali delle teste-di-cavo. Banchi di nuvole nascondevano la vecchia griglia energetica e l’area che un tempo avevano occupato gli agri. — Ha un odore diverso — constatò Lindsay. Inciampò sulla pista per le biciclette accanto alle mura del Museo e fu costretto a guardarsi i piedi. Erano sporchi. — Ho urgente bisogno d’un bagno — dichiarò.
— Striscia pure quanto vuoi e non pensarci. Se hai i batteri sulla pelle, cosa vuoi che sia un po’ di terra? A me piace. — Margaret sorrise. — È grande qui, vero? Certo, Goldreich-Tremaine è dieci volte più grande, ma non c’è niente di così aperto. È un grande mondo rischioso.
— Sono lieto che Alexandrina abbia trovato la strada del ritorno — disse Lindsay. Il loro matrimonio si era rivelato un successo, perché grazie ad esso era riuscita a ottenere ciò che voleva di più. Alla fine, lui aveva fatto ammenda. Era sempre stato motivo di tensione. Adesso lui era libero.
La Repubblica l’aveva talmente cambiato da riempirlo d’un senso di esaltazione, una curiosa sensazione. Sì, grande, ma neanche alla lontana grande abbastanza. La cosa gli faceva provare il pungolo dell’impazienza, un feroce desiderio di afferrare qualcosa, qualcosa di gigantesco e fondamentale. Aveva dormito per cinque anni. Adesso sentiva ogni ora di quel lungo riposo premere su di lui con incontenibile, vivificante energia. I ginocchi gli si piegarono, e Margaret Juliano lo sorresse con le sue braccia rinforzate da plasmatore.
— Calma — gli disse.
— Sto benissimo. — Attraversarono il ponte scoperto che varcava l’avvampante distesa di metalvetro che separava due pannelli di terra. Lindsay vide l’ex sito degli agri sotto un denso banco di nuvole. Quell’acquitrino un tempo immondo era diventato un’oasi di vegetazione d’un verde così accecante che pareva splendere persino all’ombra delle nuvole. Un ragazzo dinoccolato, di alta statura, con un abito a sacco, stava precipitandosi di corsa lungo il recinto fatto di fil di ferro intrecciato che circondava gli agri, trascinandosi dietro un grande aquilone a forma di scatola.
— Tu non sei il primo che ho curato — gli disse Margaret, mentre si avviavano in quella direzione. — Ho sempre detto che i miei studenti superintelligenti promettevano molto. Alcuni di loro lavorano qui. Un progetto-pilota. Voglio farti vedere quello che hanno realizzato. Hanno affrontato la botanica sotto l’ottica della teoria prigoginica della complessità. Nuove specie, clorofilla potenziata, un buon, solido lavoro costruttivo.
— Aspetta — l’interruppe Lindsay. — Voglio parlare con questo giovanotto.
Aveva notato l’aquilone del ragazzo. L’elaborato disegno dipintovi sopra mostrava un uomo nudo racchiuso in maniera soffocante dentro i piani rigidi della superficie della grande scatola che volteggiava nell’aria.
Una donna con un paio di pantaloni inzaccherati si sporse da sopra il recinto di filo metallico intrecciato, agitando un paio di cesoie. — Margaret, vieni a vedere!
— Torno subito — lo rassicurò Margaret Juliano. — Non allontanarti.
Con passo lento e incerto, Lindsay raggiunse il ragazzo che continuava a manovrare con mano esperta il suo aquilone. — Ehi, vecchio cugino — l’interpellò il ragazzo. — Hai qualche nastro?
— Di che tipo?
— Video, audio, qualunque cosa dal Consiglio dell’Anello. È da lì che vieni, giusto?
Lindsay fece istintivamente ricorso al suo addestramento, per la comoda rete di spontanee menzogne che avrebbe mostrato al ragazzo un’immagine plausibile di lui stesso. Ma… la sua mente era vuota. Restò lì, a bocca spalancata. Il tempo passò. Farfugliò la prima cosa che gli venne in mente. — Sono un cane solare. Da Czarina-Kluster.
— Davvero? Postumanismo! Livelli di complessità prigoginica! Strutture frattali, spaziotempo quantizzato, spazio primordiale del precontinuum! Ho detto giusto?
— Mi piace il tuo aquilone — dichiarò Lindsay, eludendo la domanda.
— Lo stemma dei vecchi cataclisti — disse il ragazzo. — Arrivano un sacco di cataclisti da queste parti. L’aquilone li attira. È la prima volta che prendo una cicada, comunque.
Cicada, pensò Lindsay. Un cittadino di C-K. A Wellspring era sempre piaciuto lo slang. — Sei un indigeno?
— Proprio così. Mi chiamo Abelard. Abelard Gomez.
— Abelard. Non è molto comune, come nome.
Il ragazzo scoppiò a ridere. — Forse non a Czarina-Kluster. Ma nella Repubblica un ragazzo su cinque si chiama Abelard. Da Abelard Lindsay, lo storico pezzo grosso. Devi aver sentito parlare di lui. — Il ragazzo esitò. — Aveva l’abitudine di vestirsi come te. Ho visto delle fotografie.
Lindsay guardò gli indumenti del ragazzo. Il giovane Gomez indossava un qualcosa più o meno contraffatto da bassa gravità, che gli cascava orribilmente addosso. — Capisco che sono fuori moda — disse Lindsay. — Fanno un gran can-can su questo Lindsay, non è vero?
— Non ne sai neanche la metà — rispose Gomez. — Prendi per esempio esempio la scuola… La scuola, qui, è una completa anticaglia. Ci fanno leggere il libro di Lindsay, Shakespeare lo chiamano. Tradotto in inglese moderno da Abelard Lindsay.
— È così brutto? — chiese Lindsay, avvertendo un vago prurito di déjà vu.
— Sei fortunato, vecchio. Non c’è bisogno che tu lo legga. Io, me lo son dovuto scolare tutto. Non c’è una sola parola, là dentro, sull’organizzazione spontanea.
Lindsay annuì. — È un vero peccato.
— Tutti sono vecchi, in quel libro. Non intendo falsovecchio come i preservazionisti di qui. O strambo-vecchio come il vecchio Pong.
— Vuoi dire Pongpianskul? — domandò Lindsay.
— Il Custode, sì. No, voglio dire, tutti vengono usati troppo in fretta. Tutti bruciati, paralizzati e malati. È deprimente.
Lindsay annuì. Decise che le cose avevano completato il cerchio. — Ti risenti per il controllo che viene esercitato sulla tua vita — azzardò. — Tu e i tuoi amici siete radicali. Tu vuoi cambiare le cose.
— No davvero — replicò il ragazzo. — Qui mi avranno solo per sessant’anni. E poi io ne avrò centinaia a disposizione, cugino. Voglio dire… per fare grandi cose. Ci vorrà un sacco di tempo, sì. Voglio dire, grandi cose. Gigantesche. Non come quella gente disidratata del passato.
— Che genere di cose?
— Spargere la vita sui pianeti, grandi raccolti. Edificare mondi. Terraformarli.
— Capisco — annuì Lindsay. Era sorpreso di trovare tanta determinazione in un individuo così giovane. Doveva essere l’influenza dei cataclisti. Avevano sempre favorito progetti inverosimili, pazzie che alla fine si erano risolte in una bolla di sapone. — E questo ti farà felice?
Il ragazzo lo fissò insospettito. — Sei uno di quegli Zen Serotonisti? Felice? Che razza d’imbroglio sarebbe! Che la felicità bruci, cugino. È il cosmo che parla. Sei dalla parte della vita oppure no?