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— Si sono rovinati — disse Gomez, a bassa voce. — Possibile che ci sia una personalità dietro a tutto questo? Deve volerci una mezza tonnellata di cervello posteriore per governare tutta questa carne. — I suoi occhi si restrinsero. — Immagina come si deve sentire.

Il clone di Carnassus, nel primo scomparto della slitta, toccò i comandi. Una giuntura umida si dischiuse nel pavimento, facendo precipitare la slitta in caduta libera verticale. Vennero catapultati giù lungo la tromba multibinario di un ascensore, interrotta qua e là da vertiginose prospettive di piazze e sobborghi.

Negozi e uffici scorrevano via fulminei, incassati in un’ondeggiante, scura pelle satinata. Il calore e l’odore della pelle profumata erano dappertutto: intimità su scala industriale. La folla era scarsa. Per la maggior parte si trattava di bambini, che correvano in giro nudi.

La slitta si arrestò con una brusca frenata. Il gruppo sbarcò su una piattaforma pelosa. Gomez diede di gomito a Lindsay quando la slitta vuota tornò indietro scivolando verso l’alto lungo i binari. — Le pareti hanno orecchie, Cancelliere.

Sì, li avevano. E anche occhi.

C’era qualcosa nell’aria di quel livello. Il profumo era particolarmente inebriante. D’un tratto Gomez sentì le palpebre pesanti, e i fratelli Szilard che avevano inforcato le telecamere a benda, se le sfilarono dalla fronte per asciugarsi il sudore. Jane Murray ed Emma Meyer, sconcertate da qualcosa che non riuscivano a definire, si guardavano intorno sospettose. Mentre i due dembowskiani li conducevano giù dalla piattaforma addestrandosi nelle cavernose profondità, Lindsay identificò d’un tratto la causa: feromoni sessuali. L’architettura era eccitata.

Il gruppo seguì un sentiero a bassa gravità: pelle indurita segnata dagli interminabili solchi d’innumerevoli impronte digitali. Il soffitto sovrastante era un tappeto ondulato di lucidi capelli neri, per spostarsi, una mano dopo l’altra.

Era chiaro che quel livello era una mostra: gli edifici preesistenti erano stati spogliati, ridotti a pure intelaiature, tralicci per la carne. Voluttuosi profili organici s’innalzavano da ogni lato, angoli euclidei erosi e smussati per ottenere morbide linee materne. Le strutture fluivano su dal pavimento per fondersi in archi a collo di cigno con il lucido soffitto. Gli edifici erano infossati, scavati, il liscio color rosa degli sfinteri a guisa di porte sfumava impercettibilmente nella pelle punteggiata di peluria.

Si fermarono sul prato peloso davanti a un enorme ed elaborato edificio, le sue scure pareti ostentavano lucidi mosaici di avorio. — Il vostro ostello — annunciò il colonnello. La doppia porta dell’edificio si spalancò, ruotando su cardini muscolari simili a fauci.

Jane Murray esitò mentre gli altri entravano; prese Lindsay per il braccio. — Quell’avorio nelle pareti sono denti. — Era diventata pallida sotto i gelidi azzurri e acquamarina della sua tintura facciale cicada.

— Feromoni femminili nell’aria — disse Lindsay. — La rendono nervosa. È la reazione del retrocervello, dottore.

— Gelosa delle pareti? — La postantropologa sorrise. — Questo posto dà la sensazione di essere un gigantesco discreto.

Malgrado questa spacconata, Lindsay vide la sua paura. Lei avrebbe preferito trovarsi perfino nei più famigerati discreti della cicada, con i loro giochi clandestini, piuttosto che in quell’alloggio di dubbia natura. Entrarono.

Murasaki si rivolse al gruppo: — Dividerete l’ostello con due gruppi di agenti di commercio, uno di Diotima e l’altra di Themis, ma avrete un’ala tutta per voi. Da questa parte, per favore.

La seguirono lungo una passerella d’innesti di avorio piatto. Uno della miriade di cuori che pullulavano su Dembowska pulsava dietro le costole del soffitto. Il suo doppio battito dava il ritmo al lieve gorgheggio musicale che proveniva da una laringe incassata nella parete.

Il loro alloggio era un miscuglio biomeccanico. Degli schermi collegati con la Borsa ardevano sulle pareti, seguendo l’ascesa e la caduta dei più importanti titoli mechanist. La mobilia era costituita da grumi e da montagnole di gusto raffinato: letti di carne ricurvi, pudicamente ammantati di lenzuola e coperte stampate con disegni di giaggioli. L’ampio appartamento era diviso da membrane tatuate a mo’ di paraventi, Il colonnello batté una mano su una delle membrane divisorie. Questa s’increspò ritraendosi dentro il soffitto come una palpebra. Il colonnello indicò con un gesto cortese uno dei letti. — Questi mobili sono un esempio dell’erotecnologia della nostra Muromadre. Esistono per vostro conforto e piacere. Devo informarvi, però, che la nostra Muromadre si riserva il diritto della fecondità.

Emma Meyer, che si era accomodata con cautela su uno dei letti, balzò di scatto in piedi. — Scusi?

Il colonnello corrugò la fronte. — Le eiaculazioni maschili diventano proprietà del ricevente. Questo è un antico principio femminile.

— Oh, capisco.

Murasaki contrasse le labbra. — Lo considera strano, dottore?

— Niente affatto — replicò Emma Meyer, in tono convinto. — Ha perfettamente senso.

La ragazza dembowskiana proseguì: — Qualunque bambino generato dagli uomini del vostro gruppo avrà la completa cittadinanza. Tutti i murofigli sono ugualmente amati. Si dà il caso che io sia un clone perfetto, ma mi sono guadagnata il mio posto per i miei meriti, nell’amore della Madre. Non è così, Martin?

Il colonnello aveva una maggior comprensione per quelle che erano le finezze diplomatiche. Annuì brevemente. — L’acqua dei bagni è sterile e contiene soltanto un minimo di sostanze organiche disciolte. Può essere bevuta tranquillamente. L’impianto idraulico è modellato sulla tecnologìa genitourinaria, ma non vi sono liquami di scarto.

Gomez trasudava un affascinato entusiasmo. — Come progettista biologico, la vostra ingegnosa architettura m’incanta. Non soltanto per l’abilità tecnica ma anche per la sua raffinata estetica. — Esitò. — C’è tempo per un bagno prima dell’arrivo dei bagagli?

I cicada avevano bisogno di fare un bagno. Il cambiamento batterico non era ancora insediato del tutto, e la temperatura del sangue dell’aria dembowskiana causava loro un continuo prurito.

Lindsay si ritirò in un angolo dell’appartamento e abbassò la membrana.

Subito cambiò il proprio comportamento. Non più in presenza dei suoi giovani seguaci, prese a muoversi secondo la propria velocità. Non aveva bisogno di un bagno. La sua pelle invecchiata non era più in grado di sostentare una fitta popolazione di batteri.

Si sedette sul bordo del letto. Era stanco. Senza che lui lo volesse, i suoi occhi si appannarono. Trascorse un lungo istante, durante il quale fu semplicemente vuoto, senza pensare a niente.

Alla fine, ammiccando più volte, tornò in sé. Di riflesso, portò la mano alla tasca della giacca, e tirò fuori un inalatore smaltato. Due lunghe spruzzate di Delirio Verde ridestarono in lui l’interesse per il mondo esterno. Si guardò lentamente intorno, e fu sorpreso di vedere un kimono azzurro contro la parete. Era Murasaki a indossarlo. Il suo corpo era dissimulato quasi perfettamente contro la pelle dello sfondo.

— Capitano Murasaki — disse Lindsay. — Non l’avevo notata. Mi perdoni.

— Ero… — Se n’era rimasta là in cortese silenzio. Era innervosita dalla sua reputazione. — Mi è stato ordinato di… — Indicò la porta, una piega nella parete.

— Vuole condurmi da qualche parte? — chiese Lindsay. — I miei compagni possono cavarsela anche senza di me. Sono a sua disposizione.

Seguì la ragazza nel corridoio.

Giunta nell’atrio, la ragazza si fermò e passò la mano lungo la carne liscia della parete. Un foro si aprì come uno sfintere accanto ai suoi piedi, ed entrambi, lentamente, caddero giù di un piano.