Выбрать главу

Un tempo lei era stata la favorita del fondatore del loro clan, coperta di doni e dall’affetto parossistico di Constantine. Ma il suo clan aveva giocato troppe carte sbagliate. Philip Constantine aveva rischiato il loro futuro puntando sulla possibilità di uccidere Lindsay, e aveva fallito. Il clan aveva fatto grandi investimenti sull’incarico di ambasciatore di Vera, ma lei era tornata senza le ricchezze che loro si erano aspettati. Ed era cambiata in maniera tale da allarmarli. Adesso era sacrificabile.

A mano a mano che il potere del clan era diminuito, avevano vissuto nel terrore di Lindsay. Lui era sopravvissuto al duello ed era ritornato più potente che mai. Sembrava inarrestabile, più grande della vita, ma l’attacco che si erano aspettati non era mai venuto, e si erano resi conto che aveva anche lui i suoi punti deboli. Per suo tramite speravano di far leva sulle sue emozioni, contando sull’amore o sul senso di colpa che provava per Vera Kelland. Era l’ultima e la più disperata delle scommesse. Con un po’ di fortuna avrebbero potuto assicurarsi un asilo. O la vendetta. O tutte e due le cose.

— Perché venire da me? — chiese Lindsay. — Ci sono altri luoghi. La vita da mechanist non è così brutta come la dipinge il Consiglio dell’Anello.

— I Mech ci metterebbero contro la nostra stessa gente. Frantumerebbero il nostro clan. No, Czarina-Kluster è il luogo migliore. C’è asilo all’ombra della vostra Regina. Ma non ci sarà, se tu operi contro di noi.

— Capisco — annuì Lindsay. E sorrise. — I miei amici non si fidano di voi. Abbiamo ben poco da guadagnare, capisci. Czarina-Kluster pullula già di disertori. Il tuo clan non condivide la nostra ideologia postumana. Cosa ancora peggiore, ci sono molte persone in Czarina-Kluster che odiano il nome Constantine. Ex detentisti, cataclisti, e così via… Capisci le difficoltà?

— Quei giorni sono alle nostre spalle, Cancelliere. Non intendiamo fare del male a nessuno.

Lindsay chiuse gli occhi. — Potremmo scambiarci assicurazioni fino a quando il sole esploderà — dichiarò, come se citasse qualcuno — e non riuscire mai a convincerci a vicenda. O ci fidiamo l’una dell’altro, oppure no.

La sua franchezza la riempì di timori. Si sentiva smarrita. Il silenzio si prolungò facendola sentire a disagio. — Ho un regalo per te — disse. — Un antico cimelio di famiglia. — Attraversò l’angusta cella per sollevare una gabbia rettangolare, avvolta in un drappo di velluto color pesca. Sollevò il panno della gabbia e gli mostrò il tesoro del clan: un topo albino di laboratorio. Correva su e giù per la gabbia sempre allo stesso modo, con una bizzarra e ripetitiva precisione. — È una delle prime creature ad aver mai raggiunto l’immortalità fisica. Un antico esemplare da laboratorio. Ha più di trecento anni.

Lindsay replicò: — Sei molto generosa. — Sollevò la gabbia e l’esaminò. All’interno di essa il topo, la sua capacità di apprendere completamente esaurita dall’età, era stato ridotto a un assoluto comportamento meccanico. Le contrazioni del suo muso, perfino i movimenti dei suoi occhi, erano totalmente stereotipati.

Lindsay continuò a fissarlo, indagatore. Lei sapeva che non ne avrebbe ricavato nessuna reazione. Non c’era niente nei gelatinosi occhi rossi del topo, neppure il più fioco guizzo di consapevolezza animale. — È mai stato fuori dalla gabbia? — chiese Lindsay.

— Non più da secoli, Cancelliere. È troppo prezioso.

Lindsay aprì la gabbia. Con la sua routine infranta, il topo si rannicchiò accanto al tubo d’acciaio dal quale sgocciolava la sua acqua, con gli arti coperti di pelliccia fibrosa che tremavano.

Lindsay agitò le dita guantate accanto all’ingresso della gabbia. — Non aver paura — disse al topo, con un tono il più serio possibile. — C’è tutto un mondo qua fuori.

Nella testa del topo scattò qualche antico, corroso riflesso. Con uno squittio si lanciò attraverso la gabbia contro la mano di Lindsay, artigliandola e mordendola con furia convulsa.

Vera rantolò e balzò in avanti, scossa dal suo stesso gesto, sgomenta per la reazione del topo. Lindsay le fece cenno di tornare indietro e sollevò la mano, osservando impietosito il topo che lo attaccava. Sotto il guanto destro lacerato, dita dure, prostetiche, luccicavano nella loro intelaiatura a griglia color rame e nero.

Lindsay agguantò con dolce fermezza l’animale che si contorceva, facendo attenzione che non si spezzasse i denti. — La prigione ha compresso e modellato la sua mente in maniera innaturale — disse. — Ci vorrà molto tempo per dileguare le sbarre dietro i suoi occhi. — Sorrise. — Per fortuna, il tempo è una merce abbondante.

Il topo smise di lottare. Ansimava, colto dagli spasimi di qualche epifania roditoria. Lindsay lo mise giù con delicatezza, sulla superficie del tavolo, accanto allo schermo del mercato azionario. L’animaletto si agitò per rimettersi in piedi sulle sue zampette rosa e cominciò ad andare su e giù tutto agitato, voltandosi per tornare indietro tutte le volte che raggiungeva quelli che erano stati i confini della sua gabbia.

— Non può cambiare — gli disse Vera. — Le sue capacità sono esaurite.

— Sciocchezze — ribatté Lindsay. — Ha soltanto bisogno di attuare un balzo prigoginico fino al successivo livello di comportamento. — Questa calma asserzione della sua ideologia la spaventò. Qualcosa, però, doveva essere trasparito sul suo viso. Lindsay sfilò dalla propria mano il guanto lacerato. — La speranza è il nostro dovere — dichiarò. — Devi sempre sperare.

— Per anni abbiamo sperato di poter guarire Philip Constatine — replicò Vera. — Adesso sappiamo che non è possibile. Siamo pronti a dartelo, in cambio d’un salvacondotto.

Lindsay la fissò, serio. — Questa è crudeltà — rispose.

— Era il tuo nemico — lei spiegò. — Volevamo fare ammenda.

— Per me, quella possibilità sei tu.

Funzionava. Ricordava ancora Vera Kelland.

— Non illuderti — disse ancora. — Io non ti offro una vera ricompensa. Un giorno Czarina-Kluster dovrà cadere. Le nazioni non durano, in quest’epoca. Soltanto la gente dura, soltanto i progetti e le speranze… Io posso offrirti soltanto quello che abbiamo. Non la sicurezza, la libertà.

— Il postumanismo — lei citò. — È la vostra ideologia di stato. Naturalmente ci adatteremo.

— Pensavo che tu avessi le tue convinzioni, Vera. Tu sei una galatticista.

Vera si passò leggermente le dita, con fare assente, su una delle cicatrici branchiali sul suo collo. — Ho imparato la mia politica nella sfera di osservazione. A Fomalhaut. L’ambasciata. — Esitò. — Là la vita mi ha cambiato più di quanto tu non possa immaginare. Ci sono delle cose che non riesco a spiegare.

— C’è qualcosa in questa stanza — disse Lindsay.

Lei lo fissò, sbalordita. — Sì — esclamò. — Lo senti? Non molti ci riescono.

— Cos’è? Qualcosa degli alieni di Fomalhaut? I sacchi-di-gas?

— Loro non ne sanno niente.

— Ma tu sì — lui ribadì. — Parlamene.

Ormai, c’era troppo dentro per tirarsi indietro. Parlò con riluttanza. — La prima volta l’ho notato quand’ero all’ambasciata. L’ambasciata galleggia nell’atmosfera di Fomalhaut Quattro, un pianeta gigante, gassoso, simile a Giove… Là, dovevamo vivere nell’acqua per sopravvivere alla gravità. Ci avevano messi insieme, Mechanist e Plasmatori, condividevamo l’ambasciata, non c’era altra scelta. Ogni cosa è stata cambiata; anche noi cambiammo… Gli investitori erano venuti a prelevare un contingente mechanist per riportarlo alla Matrice Disaggregata. Credo che la Presenza fosse a bordo della nave degli investitori. Da allora la Presenza è stata con me.