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Era una strana nave, scomoda, di costruzione non umana. Il grande guscio d’uovo aveva la lucentezza biancastra dell’idrogeno metallico stabilizzato, che soltanto i sacchi-di-gas erano capaci di produrre. Il pavimento e il soffitto spogli, là dentro, recavano i segni della segmentazione dentellata e arrotondata del precedente pilota, una larva di sacco-di-gas. La larva che viaggiava nello spazio era stata schiacciata dentro lo scafo come una densa pasta in lievitazione.

Uno dei sacchi-di-gas adulto aveva alluso alla morte dell’astronauta in una “conversazione” con Vera Constantine. Con la sua acuta sensibilità ai flussi magnetici, la sventurata larva aveva percepito una macchia solare la cui forma e sostanza aveva trovato per qualche ragione blasfema. L’astronauta era spirato in preda alla disperazione.

Lindsay aveva cercato proprio un’occasione di questo tipo. Quando Vera gli aveva parlato dell’incidente, Lindsay aveva agito subito. Aveva reclutato le aragoste tramite il suo contatto per gli affari a Czarina-Kluster, anch’esso un’aragosta che essi chiamavano “Modem”.

In totale segretezza, era stato elaborato un complesso accordo con le aragoste anarchiche. Una delle loro astronavi senz’aria, simili a un merletto, aveva utilizzato le coordinate fornite da Vera per rintracciare la larva morta. Lindsay aveva loro consentito di smantellarla e di appropriarsi dei motori alieni. In cambio le aragoste avevano attrezzato il guscio vuoto per un furtivo tentativo di violare l’Interdetto della Terra.

L’Interdetto non era mai stato applicato ai sacchi-di-gas. Questi avevano insistito per esplorare l’intero sistema solare, e avevano accordato uguali diritti ai pionieri a Fomalhaut. I loro apparecchi da ricognizione avevano spesso studiato la Terra. Non avevano fatto nessun tentativo di prendere contatto con i primitivi locali. Si erano convinti che il pianeta era innocuo e avevano fatto ritorno dall’esplorazione ostentando il massimo disinteresse.

Insieme ai suoi due compagni, Lindsay aveva assunto il mascheramento supremo. Si faceva passare per alieno, nel tentativo d’ingannare l’intera Matrice Disaggregata.

L’eccitazione e il trionfo avevano spogliato Lindsay di decine d’anni. Aveva dato la massima energia alla corazza sul suo petto, cosicché il suo cuore potesse pompare al ritmo dei sentimenti. Il monitor incassato sul suo avambraccio ardeva d’un bagliore ambrato a causa dell’adrenalina.

La nave spaziale sorvolò il turgido Atlantico del Sud, e affondò in profondità nell’atmosfera una volta giunta alla linea del crepuscolo. La decelerazione schiacciò Lindsay dentro le cinghie del suo scheletrico seggiolino.

Le aragoste avevano fatto un lavoro semplice e rapido: le tre persone dell’equipaggio erano schiacciate dentro una losanga scanalata larga circa quattro metri e dotata di serbatoi d’aria riciclatori, e tre cuccette antiaccelerazione di rete nera, elastica, distesa sopra telai metallici saldati al pavimento. Il resto della nave era occupato dai motori e da una stiva in cui immagazzinare i campioni. Nella stiva era accovacciato un robot da ricognizione, una delle sonde sottomarine europidi.

Gli orifizi del defunto astronauta erano stati spogliati del loro naturale tessuto organico e muniti di telecamere e sistemi di analisi a distanza. Nella stiva era stato realizzato un boccaporto, ma non c’era stato posto per una camera di equilibrio, nello scompartimento dell’equipaggio, per cui loro tre erano stati saldati dentro.

A Pilota la cosa non era piaciuta. Comunque, di Pilota ci si poteva fidare. Non gliene importava niente di Europa e dei loro piani, ma gli piaceva molto la prospettiva di poter vantare tra le sue imprese anche questo antico pozzo gravitazionale. Era stato dappertutto, dalle turbolente frange della corona solare alla nube di Oort brulicante di comete ai confini dello spazio circumsolare ben oltre Plutone. Non era umano, ma per il momento era uno dei loro.

Gli schermi cominciarono a schiarirsi. La decelerazione diminuì fino ad annullarsi sotto l’effetto dell’intensa attrazione gravitazionale della Terra. Lindsay si afflosciò sul sedile, ansimando, mentre la corazza gli pompava aria nei polmoni. — Guardate cosa fa alle stelle questo letamaio — si lamentò Pilota, con un gorgheggio.

Vera allungò la mano sul suo seggiolino, e dispiegò i suoi schermi a fisarmonica impacchettati stretti stretti. Dispiegò un videopannello con uno schiocco e ne lisciò le pieghe.

— Guarda, Abelard! C’è tanta aria sopra di noi da offuscare le stelle. Pensa a quanta aria! È fantastico.

Lindsay si risollevò e guardò lo spettacolo dalla telecamera di poppa. Dietro a loro una muraglia di nuvoloni torreggiava fino ai limiti della troposfera. Nere radici arricciolate di pioggia s’innalzavano fino alle bianche teste d’incudine che ardevano all’ultima luce del crepuscolo. Era uno dei bracci tesi della zona temporalesca dove infuriavano in permanenza le tempeste che cingevano l’equatore del pianeta.

Ampliò la veduta di poppa fino a riempire tutto il videopannello. Ciò che vide lo lasciò sgomento. — Guarda a poppa verso quelle nubi tempestose — disse. — Vedi quelle immense strisce di fuoco che ne schizzano fuori? Cos’è mai che brucia?

— Grumi di vegetazione? — azzardò Vera.

— Aspetta. No, sono fulmini — disse Lindsay. — Come nell’antica frase “tuoni e fulmini”. — Li fissò, totalmente affascinato.

— I fulmini dovrebbero essere rossi con i bordi frastagliati — disse Vera. — Questi sono come ramificazioni bianche…

— Il disastro deve aver cambiato la loro forma — replicò Lindsay.

— La tempesta sta scomparendo sotto l’orizzonte — li informò Pilota. — La costa si sta avvicinando.

Passarono agli infrarossi. — Questa è una parte dell’America — concluse Lindsay. — Veniva chiamata Mexico o forse Texico. La linea costiera aveva un aspetto diverso prima che le calotte polari fondessero. È irriconoscibile.

Pilota lottava con i comandi. Vera disse: — Stiamo andando più veloci delle onde sonore in questa atmosfera. Rallenta, Pilota.

— Letame — si lamentò Pilota. — Volete proprio sprofondare in questa roba? E se gli indigeni dovessero vederci?

— Sono primitivi, non hanno gli infrarossi — ribatté Vera.

— Vuoi dire che usano soltanto lo spettro visibile? — Adesso toccò a Pilota mostrarsi stupefatto.

Studiarono il paesaggio sottostante: macchie di fitta boscaglia, che risplendevano nel falso-nero dell’infrarosso. Di tanto in tanto la selva era striata da occasionali strisce più cupe. — Faglie tettoniche? — fece Vera.

— Strada — disse Lindsay. Le spiegò come funzionassero quelle strisce ad attrito ridotto, concepite per viaggiare al suolo in condizioni di gravità. Finora non avevano visto nessuna città, anche se qua e là erano comparse chiazze allusive, in cui la straripante vegetazione era parsa più rada.

Pilota li portò più in basso. Esaminarono la vegetazione ad alto ingrandimento. — Erbacce — concluse Lindsay. — Da quando c’è stato il disastro, la stabilità ecologica è andata a rotoli… Nuove specie formatesi a caso, in pieno disordine genetico, hanno preso il controllo. Un tempo, probabilmente, questo era tutto terreno coltivato.

— È brutto — osservò Vera.

— I sistemi in collasso molto spesso lo sono.

— Flusso ad alta energia davanti a noi — annunciò Pilota. La nave spaziale scese in picchiata e si librò sopra un crinale.

Un incendio spazzava i fianchi della collina, interi chilometri d’un vivido bagliore arancione nel buio. Ruggenti correnti ascensionali scagliavano in alto lapilli e ceneri incandescenti, cascate alla rovescia di foglie e di rami divelti dai tronchi. Dietro al muro di fuoco, le distese contorte e ardenti delle erbacce, cresciute fino a diventare grandi come alberi, i loro tronchi fumanti ridotti a spessi fasci di filamenti legnosi. Non dissero niente, toccati fin nel profondo dell’animo dalla meraviglia di quanto vedevano. — Piante cani solari — disse infine Lindsay.