«Che fate, guardate le ragazze?» sogghignò Achtyrzev, ordinando al cameriere del vino e due piatti del giorno. «Io invece, dopo Amalia, nemmeno le considero esseri di sesso femminile. Quanti anni avete, Fandorin?»
«Ventuno», rispose Erast Petrovič aggiungendosi un annetto.
«Io ne ho ventitré, e ne ho già viste di cose. Non statevene lì a bocca aperta davanti a quelle in vendita, non meritano né denaro né tempo. E subito dopo viene la nausea. Se proprio bisogna amare, che sia un’imperatrice! Sebbene, cosa sto a dirvi… Dopotutto non ci sarete finito per caso da Amalia? Vi ha stregato? Questo le piace molto, mettere insieme una collezione, e che i pezzi esposti si rinnovino di continuo. Come cantano all’operetta, elle ne pense qu’a excìter les hommes… Ma tutto ha un prezzo, e io il mio prezzo l’ho pagato. Volete che vi racconti una storia? Non so perché ma mi piacete, sapete tacere così bene. E a voi risulterà utile sapere che donna è quella. Magari tornate in voi prima che vi risucchi del tutto come ha fatto con me. O vi ha già risucchiato, eh, Fandorin? Cosa stavate lì a sussurrarle?»
Erast Petrovič abbassò lo sguardo.
«Allora ascoltatemi», prese a raccontare Achtyrzev. «Visto che poco fa mi avete preso per un vigliacco perché ho ceduto a Ippolit, invece di sfidarlo a duello. Ma io un duello l’ho già fatto, di quelli che il vostro Ippolit nemmeno se lo sogna. Avete sentito quando ha detto di non parlare di Kokorin? Ci mancherebbe pure quello. Il suo sangue ce l’ha lei sulla coscienza, lei. E anch’io, naturalmente. Solo che io il mio peccato l’ho riscattato con un terrore mortale. Kokorin era un mio compagno di corso, ci veniva anche lui da Amalia. Una volta eravamo stati amici, ma poi eravamo diventati nemici per via di lei. Kokorin era più disinvolto di me, e aveva una bella faccia, ma, detto entre nous, un mercante è sempre un mercante, un plebeo, non importa se ha studiato all’università. Amalia si è divertita abbastanza con noi, coccolava ora uno, ora l’altro. Un giorno mi chiama ‘Nicolas’, mi dà del tu, divento io il favorito, poi basta un niente per cadere in disgrazia: mi tiene in quarantena per una settimana, mi dà di nuovo del voi, sono di nuovo Nikolaj Stepanyč. Ecco com’è la sua politica, chi abbocca al suo amo, non si libera più.»
«E questo Ippolit chi è per lei?» chiese cautamente Fandorin.
«Il conte Zurov? Di preciso non lo so, ma fra di loro c’è qualcosa di particolare… Non si capisce se è lui ad avere potere su di lei, o lei su di lui… Ma geloso lui non lo è, e poi non è la gelosia di Zurov che conta. Amalia è di quelle che non permette a nessuno di fare il geloso. In una parola: è un’imperatrice!»
Smise di parlare perché al tavolino accanto si era messa a schiamazzare una compagnia di commercianti ubriachi — stavano per andarsene e litigavano su chi doveva pagare il conto. I camerieri in quattro e quattr’otto portarono via la tovaglia sporca, ne misero una nuova, e tempo un minuto al tavolo liberatosi stava già seduto, reduce dalle sue gozzoviglie, un funzionario dagli occhi chiarissimi, quasi incolori (probabilmente per l’ubriachezza). A quello sfaccendato si avvicinò svolazzando un’appetitosa brunetta, lo prese per la spalla e accavallò pittorescamente una gamba sopra l’altra, col risultato che Erast Petrovič non distolse più lo sguardo dall’ipnotico ginocchio fasciato di fil de Perse rosso.
Lo studente invece, vuotato il boccale pieno di vino del Reno e infilzando con la forchetta una bistecca al sangue, riprese: «Voi credete che Pierre Kokorin si sia ucciso con le sue mani per un amore infelice? Ma non è stato così! L’ho ucciso io».
«Cosa?!» esclamò Fandorin che non credeva alle sue orecchie.
«Avete sentito bene», annuì orgogliosamente Achtyrzev. «Adesso vi racconto tutto, però statevene seduto tranquillo e non interrompetemi con le vostre domande.
«Proprio così, l’ho ucciso, e non ne ho il minimo rimorso. L’ho ucciso in modo onorevole, in duello. Sì, in modo onorevole! Perché da che mondo è mondo non c’è stato un duello più onorevole del nostro. Quando due si mettono alla barriera, lì c’è quasi sempre un inganno — uno spara meglio, l’altro peggio, oppure uno è grasso e colpirlo è più facile, oppure ha passato una notte insonne e gli tremano le mani. Mentre fra me e Pierre si è svolto tutto senza inganno. Amalia ci ha detto… questo avveniva a Sokolniki, nel parco, noi tre eravamo in carrozza — e lei dice: ‘Mi sono stancata di tutti e due, siete dei ragazzini ricchi, viziati. Se almeno vi ammazzaste l’uno con l’altro, eh?’ E quella bestia di Kokorin le fa: ‘Posso anche ammazzare, se in cambio ne riceverò da voi il premio’. E io dico: ‘Per il premio posso ammazzare anch’io. Questo è un premio’, dico, ‘che non si può dividere in due. Ne consegue, a uno la strada dritto filato nell’umida terra, a meno che non ci rinunci con le buone.’ Ecco fino a che punto si erano messe le cose fra me e Kokorin. ‘Così voi mi amereste fino a quel punto?’ chiede lei. Lui: ‘Più della vita’. E anch’io confermai lo stesso. ‘D’accordo’, dice lei, ‘negli uomini c’è solo l’audacia che apprezzo, tutto il resto si può simulare. Ascoltate la mia volontà. Se uno di voi uccide davvero l’altro, avrà in cambio della sua audacia un premio, quale lo sapete da voi.’ E si mette a ridere. ‘Ma siete soltanto dei chiacchieroni, tutti e due. Non ammazzerete proprio nessuno’, dice. ‘Non avete nulla di interessante a parte i capitali dei vostri genitori.’ Io presi fuoco. ‘Per Kokorin non posso garantire’, dissi, ‘ma quanto a me dichiaro che per un premio del genere non risparmierei né la vita mia né l’altrui.’ Al che lei, arrabbiata: ‘Ma insomma, mi siete venuti a noia coi vostri chicchirichì. È deciso, vi sparerete, ma non in duello, altrimenti verrò coinvolta nello scandalo. Ed è poco sicuro, il duello. Ci mancherebbe, uno graffia il braccio all’altro, dopodiché viene da me a dichiararsi vincitore. No, meglio che uno vinca la morte, e l’altro l’amore. Come deciderà il fato. Tirate a sorte. A chi tocca, quello si spara. E scrive un biglietto in modo tale che non si abbia a pensare che è stato a causa mia. Cosa v’è preso adesso, avete paura? Se avete paura, se non altro la smetterete di venire da me per la vergogna, il che sarebbe vantaggioso’. Pierre mi guarda e dice: ‘Non so quanto ad Achtyrzev, ma io non ho certo paura…’ E così fu che decidemmo…»
Lo studente tacque e abbassò la testa. Poi si riscosse, si riempì la coppa fino all’orlo e mandò giù tutto d’un fiato. Al tavolino accanto la ragazza dalle calze rosse faceva delle risate squillanti: l’uomo dagli occhi pallidi le stava sussurrando qualcosa all’orecchio.
«Ma che c’entra il testamento?» chiese Erast Petrovič, e si morse subito la lingua, visto che non gli si addiceva sapere anche questo. Tuttavia Achtyrzev, immerso com’era nei suoi ricordi, annuì fiaccamente: «Ah già, il testamento… Quella è stata una sua trovata. ‘Volevate comprarmi coi soldi?’ dice. ‘Bene, che ci siano i soldi, ma non centomila, come aveva offerto Nikolaj Stepanyč’ (era capitato una volta che glieli offrissi, per poco non mi sbatteva fuori di casa). ‘E nemmeno duecentomila. Ma tutto quel che avete. Quello a cui toccherà la morte, che se ne vada pure nudo all’altro mondo. Solo che a me i vostri soldi non servono, li regalerò io stessa a chi voglio. Che i soldi vadano almeno per qualcosa di buono e di utile, a un santo monastero o in qualche altro posto del genere. Per la remissione del peccato mortale. Che dici’, fa lei, ‘Petrosa, ci verrà pure un cero bello grosso col tuo milione di capitale, no?’ E Kokorin era ateo, e pure militante. Così scattò. ‘Basta che non vada ai pope’, dice. ‘Meglio lasciarlo alle ragazze cadute, così che ognuna abbia di che comprarsi una macchina da cucire e cambiare mestiere. A Mosca non resterà nemmeno una donna di strada, in questo modo conserveranno il ricordo di Petr Kokorin.’ Al che Amalia ribatte: ‘Quelle che hanno preso il vizio, ormai non ci puoi fare nulla. Prima bisogna, nell’età dell’innocenza’. Kokorin fa un gesto con la mano: ‘Allora ai bambini, agli orfani, a un orfanotrofio’. Lei si illuminò tutta: ‘Per questa idea, Petrusa, ti si potrebbe perdo nare molto. Vieni che ti do un bacio’. Mi prese la bile. ‘Li ruberanno i tuoi milioni all’orfanotrofio’, dico. ‘Non l’hai letto cosa scrivono dei ricoveri di Stato sui giornali? Gliene importa tanto a loro. Meglio darli a quell’inglese, alla baronessa Esther, lei non ruba.’ Amalia baciò anche me: date un bel po’ di punti ai nostri patrioti. Questo avveniva l’undici, di sabato. Domenica ci incontrammo con Kokorin e prendemmo tutti gli accordi. Fu una conversazione curiosa. Non faceva che fare lo spaccone, lo sbarazzino, io stavo più zitto, ma non ci guardammo negli occhi. Ero come inebetito… Mandammo a chiamare l’avvocato, redigemmo due testamenti nel pieno rispetto delle forme. Pierre faceva da testimone ed esecutore testamentario a me, e io a lui. All’avvocato demmo cinquemila a testa, perché tenesse la lingua dietro ai denti. E poi nemmeno a lui conveniva chiacchierare. E con Pierre ci siamo messi d’accordo così — fu lui a proporlo. Ci saremmo incontrati alle dieci del mattino da me nel quartiere Taganka (io abito in via Gončarnaja). Ciascuno si sarebbe messo in tasca una rivoltella a sei colpi con una sola cartuccia nel tamburo. Andiamo separatamente, ma in modo da vedersi l’un l’altro. Si tira a sorte a chi tocca per primo. Kokorin aveva letto non so dove della roulette americana, gli era piaciuto. Disse: Per via di noi due, Kolja, la ribattezzeranno roulette russa, vedrai. E dice anche: Che noia spararsi in casa, organizziamoci come finale un esercizio con numero speciale. Accettai, per me era indifferente. Devo riconoscere che mi sentivo un po’ avvilito, al pensiero che avrei perso. E nel cervello mi martella: lunedì, tredici, lunedì, tredici. La notte non dormii affatto, volevo andarmene all’estero, ma al pensiero che lui sarebbe rimasto con lei e avrebbero riso insieme di me… E per via di questo pensiero restai.