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Quanto a Zurov, accanto al quale Fandorin spuntava di tanto in tanto, era chiaro che in quell’ambiente si sentiva come un pesce nell’acqua, e magari nemmeno un pesciolino qualsiasi, ma proprio il Re Pesce. Una sua parola era sufficiente per spegnere sul nascere una rissa programmata, e una volta a un gesto del padrone due baldi servi presero sotto i gomiti un urlone che non voleva assolutamente calmarsi e in quattro e quattr’otto lo buttarono fuori dalla porta. Il conte decisamente non dimostrava di riconoscere Erast Petrovič, anche se Fandorin aveva colto ripetutamente su di sé il suo sguardo malevolo, veloce.

«Siamo alla quinta mano, signor mio», annunciò Zurov, e questa comunicazione per un qualche motivo fece piombare il pointeur in un’agitazione estrema.

«La piega della bestia!» strillò quello con voce tremante, e fece due orecchie alla sua carta.

Fra gli spettatori corse un mormorio, mentre il signore sudato, scostandosi dalla fronte una ciocca di capelli, gettò sul tavolo un mucchio intero di banconote di tutti i colori dell’iride.

«Cos’è la bestia?» chiese timidamente Erast Petrovič a voce bassa a un vecchietto dal naso rosso, a quanto pareva il più inoffensivo.

«Vuol dir quadruplicare la puntata», gli spiegò di buon grado il vicino. «Vuol dire sperare di prendersi una rivincita completa nell’ultima levata.»

Il conte esalò con aria indifferente una nuvoletta di fumo e girò a destra un re, a sinistra un sei.

Il pointeur scoprì un asso di cuori.

Zurov annuì e immediatamente fece un asso nero a destra, un re rosso a sinistra.

Fandorin sentì qualcuno che sussurrava pieno d’ammirazione: «Che maestro!»

Faceva pena a guardarlo, quel signore sudato. Percorse con lo sguardo il mucchio di banconote, trasferitesi sotto il gomito del conte, e chiese timidamente: «Permette, continuo sulla parola d’onore?»

«Non permetto», rispose pigramente Zurov. «Chi vuole ancora, signori?»

Inaspettatamente il suo sguardo si posò su Erast Petrovič.

«Sbaglio o ci siamo già incontrati?» gli chiese il padrone di casa con un sorriso sgradevole. «Signor Fedorin, se non sbaglio?»

«Fandorin», lo corresse Erast Petrovič, arrossendo penosamente.

«Pardon. Cosa state lì a scrutarci con l’occhialetto? Non siamo mica a teatro. Siete venuto, allora giocate. Prego», disse indicando la sedia libera.

«Sceglietelo voi, il mazzo», sussurrò all’orecchio di Fandorin il buon vecchietto.

Erast Petrovič si mise a sedere e, seguendo le istruzioni, disse con molta decisione: «Permettetemi soltanto, vostra eccellenza, di fare io da banchiere. Con diritto di principiante. E come mazzi preferirei… quello e quello», e prese dal vassoio i due mazzi più in basso di carte ancora sigillate.

Zurov fece un sorriso ancora più sgradevole: «Ebbene, signor principiante, la condizione è accettata, ma a questo patto: dopo una vincita non si corre via. Dopodiché il banco lo lasciate tenere a me. Allora, la posta?»

Fandorin ebbe un’esitazione, tutta la sua decisione lo abbandonò con la stessa rapidità con cui l’aveva colto.

«Cento rubli?» chiese timidamente.

«Scherzate? Mica siamo al caffè.»

«Allora trecento», disse Erast Petrovič mettendo sul tavolo tutto il suo denaro, inclusi i cento rubli vinti prima.

«Le jeu n’en vaut pas la chandelle», disse il conte scrollando le spalle. «Ma tanto per cominciare può andare.»

Estrasse una carta dal suo mazzo, e con gesto incurante ci gettò sopra tre banconote da cento.

«Punto per l’intero banco.»

«Fronte» a destra, si ricordò Erast Petrovič, e mise accuratamente a destra una dama con i cuoricini rossi, e a sinistra un sette di picche.

Ippolit Aleksandrovič con due dita girò la sua carta e aggrottò appena la fronte. Era una dama di quadri.

«Eh, il principiante», fischiettò qualcuno. «L’ha spazzolata bene la sua dama.»

Fandorin mescolò goffamente il mazzo.

«L’intero banco», disse il conte con aria beffarda, gettando sul tavolo sei banconote. «Eh, non correre rischi, se non vuoi prenderle.»

Come si chiamava la carta a sinistra? Erast Petrovič non riusciva a ricordarselo. Questa era la «fronte», e l’altra… diavolo. Bel guaio. E come si fa a chiedere? Sbirciare il foglietto degli appunti era poco serio.

«Bravo!» esclamarono gli spettatori. «Conte, e’est un jeu intéressant, non trovate?»

Erast Petrovič si accorse che aveva vinto di nuovo.

«Fatemi il piacere di non francesizzare! Che razza di abitudine imbecille sarà mai quella di lardellare la lingua russa di mezze frasette francesi», disse con irritazione Zurov guardando chi aveva parlato, sebbene lui per primo infilasse modi di dire francesi a ogni piè sospinto. «Fate le carte, Fandorin, fate le carte. La carta è birichina, la fortuna arriva di mattina. L’intero banco.»

A destra un fante, questo alla «fronte», a sinistra un otto, questo…

Ippolit Aleksandrovič scoprì un dieci. Fandorin lo batté alla quarta levata.

Il tavolo ormai era circondato da ogni lato, e il successo di Erast Petrovič veniva apprezzato come meritava.

«Fandorin, Fandorin», borbottava distrattamente Ippolit Aleksandrovič, tamburellando con le dita sul mazzo. Finalmente estrasse la carta, contò duemilaquattrocento rubli.

Un sei di picche stava alla «fronte» già dalla prima apertura.

«Ma che razza di cognome!» esclamò il conte, montando su tutte le furie. «Fandorin! Di origine greca, sarebbe? Fandoraki, Fandoropulo!»

«Che c’entrano i greci?» chiese offeso Erast Petrovič, che aveva ancora fresco il ricordo di come i suoi compagni di classe fannulloni si prendevano gioco del suo antico cognome (il nomignolo di Erast Petrovič al ginnasio era «Fandoria»). «La nostra stirpe, conte, è altrettanto russa della vostra. I Fandorin prestavano servizio già all’epoca di Aleksej Michajlovič».

«Come no», si ravvivò il già menzionato vecchietto dal naso rosso, sostenitore di Erast Petrovič. «Al tempo di Caterina la Grande c’era un Fandorin che ha lasciato delle memorie interessantissime.»

«Memorie, memorie, per me sono brutte storie», rimeggiò cupo Zurov, componendo un’intera collinetta di banconote. «L’intero banco! Lanciate le carte, che v’agguanti il diavolo!»

«Le dernier coup, messieurs!» si sentì dire nella folla.

Tutti guardavano avidamente i due identici mucchi di banconote gualcite: una davanti al banchiere, l’altra davanti al pointeur.

Nel più totale silenzio Fandorin aprì due mazzi freschi, continuando nel frattempo a chiedersi come si chiamasse la carta a sinistra. Prontuario? Manuale?

A destra un asso, a sinistra pure. Zurov aveva un re. A destra una dama, a sinistra un dieci. A destra un fante, a sinistra una dama (ma quale contava di più, il fante o la dama?). A destra un sette, a sinistra un sei.

«Non soffiatemi sul collo!» urlò furioso il conte, al che indietreggiarono tutti.

A destra un otto, a sinistra un nove. A destra un re, a sinistra un dieci. Re!

Tutt’intorno ululavano e sghignazzavano. Ippolit Aleksandrovič stava seduto stupefatto.

Libro dei sogni! Tornò in mente a Erast Petrovič che sorrise rallegrandosene. La carta a sinistra era il libro dei sogni. Che nome strano.

Tutto a un tratto Zurov si sporse attraverso il tavolo e con dita d’acciaio strinse le labbra di Fandorin a trombetta.