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«Basta così, basta così!» disse Zurov togliendogli di mano la rivoltella e dandogli una pacca sulla spalla. «Un vero dritto! E si è sparato senza la minima ostentazione, senza isteria. Sta venendo su una bella generazione, non è vero, signori? Jean, versaci lo champagne, il signor Fandorin e io berremo alla fratellanza, passeremo al tu.»

Erast Petrovič, in preda a una strana abulia, fece l’obbediente: bevve fiaccamente fino all’ultima goccia il liquido pieno di bollicine, sempre fiaccamente si baciò col conte, che gli disse d’ora innanzi di chiamarlo semplicemente Ippolit. Tutt’intorno schiamazzavano e ridevano, ma tutte quelle voci arrivavano a Fandorin in modo indistinto. Lo champagne gli aveva provocato delle fitte al naso, e gli erano venute le lacrime agli occhi.

«E di Jean cosa ne dite?» rideva il conte. «In un attimo ha ripulito la rivoltella di tutte le pallottole. Allora, non è furbo, Fandorin, tu che ne dici?»

«Furbo», convenne con indifferenza Erast Petrovič.

«Già già. A te come ti chiamano?»

«Erast.»

«Andiamo. Erast di Rotterdam, andiamo un po’ nel mio studio, beviamo un po’ di cognac. Mi sono stufato di questi musi.»

«Erasm», lo corresse meccanicamente Fandorin.

«Come?»

«Non Erast, Erasm.»

«Scusa, non avevo sentito bene. Andiamo, Erasm.»

Fandorin si alzò obbediente e seguì il padrone di casa. Attraversarono una buia infilata di stanze per ritrovarsi in un locale tondo in cui regnava un disordine straordinario — vi si trovavano sparsi qua e là cannelli e pipe turche, bottiglie vuote, sul tavolo facevano bella mostra di sé speroni d’argento, mentre in un angolo chissà perché era stata posata un’elegante sella inglese. Fandorin non capiva per quale motivo la stanza venisse chiamata «studio»: non c’erano libri, né si osservavano da nessuna parte strumenti di scrittura.

«Una sella stupenda, vero?» si vantò Zurov. «L’ho vinta ieri con una scommessa.»

Versò nei bicchieri un vino marroncino da una bottiglia panciuta, si sedette accanto a Erast Petrovič e gli disse con tono molto serio, perfino intimo: «Vorrai perdonarmi, bestia che sono, per lo scherzo. Mi annoio tanto, Erasm. Di gente intorno ne ho tanta, di uomini nemmeno uno. Ho ventotto anni, Fandorin, ma è come se ne avessi sessanta. Specialmente al mattino, quando mi sveglio. La sera, di notte, va ancora bene, faccio casino, faccio l’imbecille. Ma è uno schifo. Prima non era niente, ma adesso non so come mai mi fa sempre più schifo. Sai, poco fa, quando abbiamo tirato a sorte, di colpo ho pensato: e se mi sparassi sul serio? E l’idea mi attirava tanto… Perché stai zitto? Dai, Fandorin, non ti arrabbiare. Vorrei tanto che non mi serbassi rancore. Ma cosa posso fare perché tu mi perdoni, Erasm?»

E qui Erast Petrovič, con una voce stridula ma perfettamente distinta, disse: «Raccontami di lei. Della Bežezkaja».

Zurov si scosse una folta ciocca dalla fronte.

«Già, me l’ero dimenticato. Sei del suo ‘strascico’.»

«Di dove?»

«Io lo chiamo così. Amalia dopotutto è una regina, le serve uno strascico fatto di uomini. Quanto più è lungo, tanto meglio. Da’ retta a un buon consiglio, levatela dalla testa, sennò sei perduto. Dimenticala.»

«Non posso», rispose onestamente Erast Petrovič.

«Sei ancora un poppante, Amalia ti risucchierà per forza nel suo gorgo, come ne ha già risucchiati tanti. Si è molto attaccata a me probabilmente perché non mi sono lasciato risucchiare nel gorgo per amor suo. Io non ne ho bisogno, di gorghi, ho già il mio. Non profondo come il suo, ma fa niente, mi basta per affogarci dentro con la testa.»

«Tu la ami?» chiese a bruciapelo Fandorin usufruendo dei suoi diritti di parte lesa.

«La temo», rispose Ippolit ridendo cupamente. «Più di quanto la ami. E non si tratta affatto di amore. Hai mai provato a fumare l’oppio?»

Fandorin scosse la testa.

«Se lo provi una volta ti terrà in suo potere per tutta la vita. Lei è così. Non mi vuole mollare! Vedo che mi disprezza, non mi valuta tre copechi, eppure ha visto qualcosa in me. Per mia disgrazia! Sai, sono contento che se ne sia andata, per Dio. Una volta ho pensato di ucciderla, quella strega. Di strangolarla con le mie mani, perché non mi tormentasse più. E lei questo lo ha avvertito molto bene. O, fratello mio, è intelligente! E io le ero caro per questo, che con me poteva giocare come col fuoco; ora mi attizza, ora mi soffoca, e tutto il tempo ha in mente che può divampare l’incendio, e allora non ne uscirà viva. A cosa le servirei, altrimenti?»

Erast Petrovič pensò con invidia che ce n’erano di motivi per amare quel bellone di Ippolit, testa spericolata, anche senza incendi. Un dritto del genere, probabilmente, di donne ne ha a bizzeffe. E com’è che certa gente ha tanta fortuna? Comunque queste considerazioni erano fuori tema. Bisognava chiedere a proposito.

«Chi è, da dove viene?»

«Non lo so. Non le piace parlare molto di sé. So soltanto che è cresciuta da qualche parte all’estero. A quanto pare in Svizzera, in un qualche collegio.»

«E dove si trova adesso?» chiese Erast Petrovič, senza del resto troppo contare sul successo.

Zurov a ogni buon conto tardava a rispondere, e Fandorin si sentì mancare.

«Ti interessa tanto?» chiese cupamente il conte, e una fugace smorfia malevola deformò il suo viso bello e capriccioso.

«Sì!»

«Già, se una falena è attratta dalla candela, non potrà che bruciare…»

Ippolit si mise a frugare sul tavolo fra mazzi di carte, fazzoletti gualciti e conti di bottega.

«Dove diavolo è finito? Ecco, adesso ricordo», disse aprendo una scatoletta giapponese laccata con una farfalla di madreperla sul coperchio. «Tieni. È arrivato con la posta cittadina.»

Con le dita che gli tremavano Erast Petrovič prese la stretta busta sulla quale con una calligrafia inclinata, veloce, era scritto: «A sua eccellenza il conte Ippolit Zurov, vicolo dell’Apostolo Giacobbe, casa propria». A giudicare dal timbro, la lettera era stata spedita il 16 maggio, lo stesso giorno che la Bežezkaja era scomparsa.

Dentro trovò un breve biglietto in francese privo della firma:

Mi sono trovata nella necessità di partire senza salutarti. Scrivimi a Londra, Gray Street, hotel Winter Queen, c/o Miss Olsen. Aspetto. E non osare dimenticarmi.

«E io invece oso», minacciò nervosamente Ippolit, per abbassare subito dopo il tiro: «A ogni modo, ci sto provando… Tieni, Erasm. Fanne quel che ti pare… Dove vai?»

«Vado», disse Fandorin, ficcandosi la busta in tasca. «Bisogna fare in fretta.»

«Oh oh», disse il conte con compassione scuotendo il capo. «Fa’ pure, vola nel fuoco. È la tua vita, mica la mia.»

Nel cortile Erast Petrovič fu raggiunto da Jean che teneva un pacchetto in mano.

«Ecco, signore, l’avete dimenticato.»

«Che cosa?» chiese seccato Fandorin che andava di fretta.

«Scherzate? La vostra vincita. Sua eccellenza mi ha ordinato di raggiungervi immediatamente e di mettervela in mano.»

Erast Petrovič fece un sogno stupefacente.

Era seduto al banco in classe, nel suo ginnasio di governatorato. Sogni del genere, solitamente ansiosi e spiacevoli, li faceva assai spesso: di essere di nuovo un ginnasiale e non sapere risolvere alla lavagna un problema di fisica oppure di algebra, ma questa volta non era solo pieno d’angoscia, era veramente atterrito. Fandorin non riusciva assolutamente a capire il motivo di questa paura. Non si trovava alla lavagna, ma al suo banco, intorno c’erano alcuni seduti come fossero i suoi compagni di scuola: Ivan Franzevič, Achtyrzev, un certo bel giovanotto con la fronte alta e pallida e arditi occhi castani (di lui Erast Petrovič sapeva che era Kokorin), due fanciulle con i grembiuli bianchi e ancora qualcun altro, voltato di spalle. Fandorin aveva paura di quello voltato di spalle e cercava di non guardare nella sua direzione, mentre non faceva che storcere il collo per vedere meglio le ragazze: brunetta una, biondina l’altra. Erano sedute a un banco, con le mani sottili poggiate diligentemente una sopra l’altra. Una era Amalia, l’altra Lizanka. La prima lanciava sguardi brucianti coi suoi occhioni neri e gli mostrava la lingua, mentre la seconda gli sorrideva timidamente e abbassava le folte ciglia. Qui Erast Petrovič vide che alla lavagna c’era lady Esther con la bacchetta in mano, e tutto diventò chiaro: si trattava dell’ultimissimo sistema di insegnamento inglese, in cui i ragazzi e le ragazze studiano insieme. E anche molto bene. Quasi avesse udito i suoi pensieri, lady Esther sorrise tristemente e disse: «Questo non è l’insegnamento in comune, questa è la mia classe di orfani. Siete tutti orfani, e io devo indirizzarvi sulla vostra strada». «Scusate, milady», disse stupito Fandorin, «però io so per certo che Lizanka non è orfana, ma figlia di un consigliere segreto effettivo.»«Ah, my sweet boy», disse milady con un sorriso ancora più triste. «Lei è una vittima innocente, e questo è lo stesso che essere un’orfanella.»L’uomo spaventoso, che gli stava seduto davanti, si voltò lentamente e, guardando fissamente coi suoi occhi bianchicci, trasparenti, sussurrò: «Anch’io, Azazel, sono un orfano». Fece l’occhiolino con aria cospiratoria e, perdendo ogni freno, disse imitando la voce di Ivan Franzevič: «E pertanto, mio giovane amico, mi tocca uccidervi, cosa di cui provo il più sincero rincrescimento… Ehi, Fandorin, cosa ve ne state lì seduto imbambolato. Fandorin!»