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«Fandorin!» Qualcuno stava scuotendo per la spalla Erast Petrovič tormentato dall’incubo. «Ma svegliatevi, è già mattina!»

Fandorin si riscosse, si alzò di scatto, voltò la testa. Si accorse di essersi addormentato nell’ufficio del capo, era stato sopraffatto dal sonno direttamente alla scrivania. Dalla finestra attraverso gli scuri aperti si riversava la gioiosa luce mattutina, mentre accanto a lui c’era Ivan Franzevič, vestito chissà perché come uno del ceto borghese: aveva un berretto con la visiera di stoffa, un caffettano a pieghe e stivali a fisarmonica inzaccherati di fango.

«Allora, siete crollato, mi aspettavate con ansia?» chiese allegramente il capo. «Scusate la mascherata, ho dovuto assentarmi di notte per una questione urgente. Ma andate a lavarvi, basta sbattere gli occhi. Marsch, marsch!»

Mentre Fandorin andava a lavarsi, gli tornarono in mente gli eventi della notte appena trascorsa, gli tornò in mente di come se n’era andato a rotta di collo via da casa di Ippolit, era saltato su una carrozza leggera col vetturino addormentato e gli aveva ordinato di andare di corsa in via Mjasnizkaja. Tale era l’impazienza di raccontare al capo il suo successo, ma Brilling non era sul posto. Erast Petrovič prima aveva sbrigato una faccenda urgente, poi si era messo alla scrivania ad aspettarlo, e senza accorgersene era sprofondato nel sonno.

Quando tornò nell’ufficio, Ivan Franzevič si era già cambiato in un completo chiaro e beveva del tè al limone. Un altro bicchiere dentro il portabicchiere d’argento fumava davanti al suo, sul vassoio c’erano ciambelle e panini.

«Facciamo colazione», gli propose il capo, «e intanto parliamo. Le vostre avventure notturne mi sono perfettamente note, ma ho qualche domanda da farvi.»

«Come fate a conoscerle?» chiese dispiaciuto Erast Petrovič, che aveva pregustato il piacere del racconto e, a dire il vero, intendeva sorvolare su alcuni dettagli.

«Da Zurov c’era un mio agente. Sono già tornato da un’ora, ma mi dispiaceva svegliarvi. Mi sono seduto qui, ho letto il rapporto. Una lettura avvincente, non ho nemmeno fatto in tempo a cambiarmi.»

Sbatté la mano sui foglietti scritti con una grafia minuta.

«Un agente lucido, però scrive in un modo spaventosamente pittoresco. Si immagina di avere un talento letterario, scrive sui giornaletti sotto la pseudonimo di ‘Maximus Perspicax’, sogna una carriera di censore. Ascoltate, vi interesserà. Dov’è… Ah, ecco qui.

Descrizione dell’oggetto. Nome: Erasm von Dorn, o von Doren (stabilito a orecchio). Età: non più di venti. Ritratto verbale: altezza un metro e settantacinque; costituzione corporea scarna; capelli neri e dritti; niente barba e baffi e non ha l’aria di radersi; occhi azzurro chiaro, ravvicinati, leggermente a mandorla sugli angoli; pelle bianca, pulita; naso sottile, dritto; orecchie schiacciate, piccole, a lobo corto. Segni particolari: non gli va mai via il rossore dalle guance. Impressioni personali: tipico rappresentante di una jeunesse dorée viziata e sfrenata con capacità fuori dall’ordinario di duellista. Dopo gli eventi summenzionati si è allontanato con il Giocatore nello studio di quest’ultimo. Hanno conversato per ventidue minuti. Parlavano a voce bassa, con pause. Da dietro la porta non si sentiva quasi nulla, ma ho colto distintamente la parola «oppio» e ancora qualcosa a proposito del fuoco. Ho ritenuto necessario pedinare von Doren, sennonché questi, con tutta evidenza, mi ha scoperto, mi ha distanziato con grande abilità e se ne è andato in carrozza. Propongo…

«Be’, il resto non è interessante», concluse il capo guardando con curiosità Erast Petrovič. «E così discutevate di oppio? Non tormentatemi, brucio dall’impazienza.»

Fandorin espose brevemente il succo della sua conversazione con Ippolit e gli mostrò la lettera. Brilling lo ascoltò con la massima attenzione, gli chiese di precisare alcuni punti, quindi, messosi alla finestra, tacque. La pausa durò a lungo, un minuto buono. Erast Petrovič stava seduto in silenzio, temeva di disturbare il processo mentale, sebbene avesse anche lui le sue supposizioni.

«Sono molto contento di voi, Fandorin», disse infine il capo, ritornando in vita. «Avete dato prova di una brillantissima efficienza. Tanto per cominciare, è del tutto chiaro che Zurov non ha partecipato all’assassinio e non sospetta nulla a proposito del vostro genere di attività. Vi avrebbe dato altrimenti l’indirizzo di Amalia? Questo ci libera dalla terza ipotesi. In secondo luogo, avete fatto grandi progressi sull’ipotesi della Bežezkaja. Adesso sappiamo dove cercare questa signora. Bravo. Intendo assegnare tutti gli agenti liberatisi, fra cui anche voi, all’ipotesi quattro, che mi pare fondamentale», disse puntando il dito in direzione della lavagna, dove nel quarto cerchietto biancheggiavano le lettere di gesso ON.»

«Sarebbe a dire?» chiese agitato Fandorin. «Ma scusate, capo…»

«La notte scorsa sono riuscito a imbattermi in una traccia assai allettante, che conduce a una certa dacia nei dintorni di Mosca», gli comunicò Ivan Franzevič con visibile soddisfazione (ecco come si spiegavano gli stivali imbrattati). «Laggiù si riuniscono dei rivoluzionari, per giunta oltremodo pericolosi. A quanto pare, il filo si allunga fino ad Achtyrzev. Ci sarà da lavorare. In questo mi servono tutti gli uomini. Mentre secondo me l’ipotesi Bežezkaja è priva di prospettive. In ogni caso, per quella non c’è fretta. Manderemo un’interrogazione agli inglesi per i canali diplomatici, chiederemo di trattenere questa miss Olsen fino a chiarimento, e con questo abbiamo finito.»

«Ma è proprio quello che non bisogna assolutamente fare!» gridò Fandorin, e con tanta di quella foga, che Ivan Franzevič restò perfino di stucco.

«E perché mai?»

«Possibile che non vi rendiate conto che qui tutto si riduce alla stessa cosa!» Erast Petrovič si era messo a parlare in frettissima, per timore di venire interrotto. «Non so nulla dei nichilisti, può essere di tutto… capisco bene che sono importanti, ma anche qui c’è l’importanza, e anche qui di Stato! Guardate, Ivan Franzevič, che quadro ne viene fuori. La Bežezkaja è andata a nascondersi a Londra, e uno (Erast Petrovič nemmeno si rendeva conto di quanto avesse mutuato dal capo la maniera di esprimersi). Ha il maggiordomo inglese, e un tipo molto sospetto, da sgozzarvi senza batter ciglio. E due. L’uomo dagli occhi bianchi, che ha uc ciso Achtyrzev, parlava con un accento e sembrava anche lui un inglese: e fa tre. Adesso quattro: lady Esther, certamente, è un essere nobilissimo, ma è un’inglese anche lei, mentre dopotutto l’eredità di Kokorin, dite quel che vi pare, è toccata a lei! È evidente che la Bežezkaja ha aizzato apposta i suoi ammiratori perché facessero testamento a favore dell’inglese!»