Il gentleman ebbe un momento di esitazione, ma poi mormorò fra sé in russo: «Chi non s’avventura non ha ventura».
Dopo tale enigmatica frase salì su per i gradini ed entrò nella hall.
Proprio un attimo dopo, dal pub di fronte uscì un tipo in impermeabile nero che, calato fin sopra gli occhi un alto berretto dalla visiera luccicante, prese a passeggiare davanti all’ingresso dell’albergo.
Tuttavia questa circostanza degna di nota sfuggì all’attenzione del signore appena arrivato, il quale già si trovava al banco e stava esaminando il ritratto scolorito di una qualche dama medioevale in sontuoso jabot, probabilmente la Winter Queen in persona. Il portiere che sonnecchiava dietro il banco accolse lo straniero con una certa indifferenza, vedendolo però elargire un intero scellino al ragazzo che non aveva fatto altro che portargli la sacca da viaggio, lo salutò ancora una volta e con molta più cordialità, per di più adesso prese a rivolgersi al viaggiatore chiamandolo non semplicemente sir, ma your honour.
Il giovane si informò se ci fossero camere libere, chiese la migliore, con l’acqua calda e i giornali, e si registrò nel libro degli ospiti sotto il nome di Erasmus von Dorn di Helsingfors. Dopodiché il portiere senza il benché minimo motivo ricevette una mezza ghinea e prese a chiamare quello straniero tocco di testa your lordship.
Nel frattempo il «signor von Dorn» si dibatteva in dubbi assai seri. Era difficile immaginare la splendida Amalia Kazimirovna in quella pensione di terz’ordine. Qui qualcosa evidentemente non tornava.
In preda allo smarrimento arrivò perfino a chiedere al portiere, tutto piegato in due dallo zelo, se a Londra non c’era per caso un altro albergo che portasse lo stesso nome, per averne l’assicurazione giurata che non solo non c’era, ma nemmeno c’era mai stato, a meno di considerare quella Winter Queen che si trovava nello stesso punto ma era bruciata fino alle fondamenta più di un secolo prima.
Possibile fosse tutto a vuoto; e il viaggio di venti giorni in giro per l’Europa, e i baffi posticci, e la lussuosa carrozza noleggiata alla stazione di Waterloo invece del solito cab, e, infine, la mezza ghinea buttata via per nulla?
Ma ora che la mancia te la sei presa, colombello mio, lavora, pensò Erast Petrovič (lo chiameremo così, nonostante l’incognito).
«Ditemi un po’, caro, non alloggia per caso da voi una certa Miss Olsen?» chiese con ostentata noncuranza appoggiando un gomito al banco.
La risposta, sebbene del tutto prevedibile, fece sì che il cuore di Fandorin si stringesse d’ansia: «No, milord, una lady con un nome del genere da noi non vive e non ha mai vissuto».
Leggendo lo sgomento negli occhi dell’ospite, il portiere fece una pausa a effetto e gli comunicò candidamente: «Comunque il nome ricordato da vostra eccellenza non mi è del tutto sconosciuto».
Erast Petrovič si piegò leggermente ed estrasse di tasca un’altra moneta d’oro.
«Ditemi.»
Il portiere si sporse in avanti e, tutto olezzante di acqua di colonia scadente, sussurrò: «Riceviamo della posta a nome di questa persona. Ogni sera verso le dieci arriva un certo mister Morbid, a giudicare dall’aspetto un servo o un maggiordomo, e prende le lettere».
«Di statura enorme, con grandi favoriti chiari e l’impressione che non abbia mai sorriso in vita sua?» chiese velocemente Erast Petrovič.
«Sì, milord, lui.»
«E ne arrivano spesso, di lettere?»
«Spesso, milord, quasi ogni giorno, e capita che siano più di una. Oggi, per esempio», disse il portiere guardando con aria molto significativa lo scaffale con le caselle, «ne sono arrivate tre.»
L’accenno fu inteso all’istante.
«Vorrei vedere le buste, così, per curiosità», buttò lì Fandorin, facendo risuonare sul banco l’ennesima mezza ghinea.
Gli occhi del portiere si accesero di un luccichio febbrile: stava accadendo qualcosa di inverosimile, di incomprensibile alla ragione, ma tuttavia estremamente piacevole.
«A cose normali questo è severamente vietato, milord, ma… se si tratta soltanto di dare un’occhiata alle buste…»
Erast Petrovič afferrò avidamente le buste, ma lo attendeva una delusione: le buste erano prive di mittente. A quanto pareva, la terza moneta d’oro era andata sprecata. Il capo, è vero, aveva dato il suo benestare non importa a quali spese, «nei limiti della ragionevolezza e negli interessi dell’inchiesta»… Ma cosa c’era sui timbri?
I timbri diedero da pensare a Fandorin: una lettera veniva da Stoccarda, un’altra da Washington, la terza da Rio de Janeiro. Però!
«Ed è molto che miss Olsen riceve qui la sua corrispondenza?» chiese Erast Petrovič, calcolando mentalmente quanto ci potesse mettere una lettera ad attraversare l’oceano. E poi bisognava anche avere avuto il tempo di comunicare in Brasile l’indirizzo di qui! Era un po’ strano. Dopotutto la Bežezkaja non poteva essere arrivata in Inghilterra più di tre settimane prima.
La risposta fu inattesa: «Da molto tempo, milord. Quando ho cominciato a lavorare qui — sono quattro anni — le lettere arrivavano già».
«Come?! Siete sicuro di non confondervi?»
«Ve lo assicuro, milord. È vero che mister Morbid serve miss Olsen da poco, direi dall’inizio dell’estate. In ogni caso prima di lui per la corrispondenza veniva mister Moebius, e prima ancora mister… perdonatemi, non riesco a ricordarmi come si chiamava. Era un gentiluomo che non dava nell’occhio, e poco loquace anche lui.»
La voglia di aprire le buste era spaventosa. Erast Petrovič lanciò uno sguardo interrogativo al suo informatore. Probabilmente non avrebbe resistito a un’altra mancia. Tuttavia qui al consigliere titolare appena nominato e corriere diplomatico di prima categoria venne in mente un’idea migliore.
«Avete detto che questo mister Morbid arriva ogni sera alle dieci?»
«Preciso come un orologio, milord.»
Erast Petrovič mise sul banco la quarta mezza ghinea e, sporgendosi in avanti, sussurrò qualcosa all’orecchio del fortunato portiere.
Il tempo che restava da lì alle dieci fu utilizzato nel più produttivo dei modi.
Innanzitutto Erast Petrovič oliò e caricò la sua colt di corriere. Dopodiché andò nel bagno e, pigiando a turno i pedali dell’acqua fredda e calda, in una quindicina di minuti riempì la vasca. Poltrì una mezz’oretta, e quando l’acqua si freddò, il piano delle mosse successive era già definitivamente formato.
Dopo essersi nuovamente incollato i baffi ed essersi un poco ammirato allo specchio, Fandorin si vestì da inglese che non dà nell’occhio: bombetta nera, giacca nera, pantaloni neri, cravatta nera. A Mosca, probabilmente, lo avrebbero preso per un becchino, mentre a Londra era da credersi che sarebbe rimasto invisibile. E poi la notte sarebbe stato perfetto: si sarebbe chiusa la giacca davanti coprendo il bianco della pettina e tirando dentro i polsini, in modo da dissolversi completamente nell’abbraccio delle tenebre, cosa che per il suo piano era di capitale importanza.
Restava ancora un’ora e mezza per una passeggiata di ricognizione nel circondario. Erast Petrovič svoltò da Gray Street in una larga via, tutta piena di carrozze, e quasi subito si ritrovò al famoso teatro Old Vic, descritto dettagliatamente nella sua guida. Passeggiò ancora un po’ e — quale prodigio! — vide i noti tratti della stazione di Waterloo, da dove la carrozza lo aveva portato al Winter Queen per quaranta minuti buoni — il cocchiere, quel furbacchione, gli aveva preso cinque scellini. Dopodiché si mostrò anche il grigio Tamigi, assai poco accogliente nel crepuscolo serotino. Guardando le sue acque impure, Erast Petrovič si sentì intimidire, e per chissà quale motivo lo prese un cupo presentimento. In questa città straniera era comunque a disagio. I passanti guardavano oltre, non uno che lo guardasse in faccia, cosa che, ne converrete, a Mosca sarebbe stata del tutto inconcepibile. In tutto questo non abbandonava Fandorin la strana sensazione di avere puntato sulla schiena un qualche sguardo malevolo. Più volte il giovane si guardò alle spalle e una volta gli parve di notare una figura in nero che si era messa di colpo dietro a una colonna di manifesti teatrali. Qui Erast Petrovič riprese il controllo di sé, si accusò di ipocondria e smise di voltarsi. I nervi sono davvero maledetti. Ebbe perfino un momento di esitazione — non sarebbe stato meglio rimandare l’esecuzione del piano fino alla sera dell’indomani? In quel modo gli sarebbe stato possibile fare una visita al mattino in ambasciata e incontrare quel misterioso impiegato Pyžov di cui gli aveva parlato il capo. Ma la cautela codarda è un sentimento riprovevole, e poi non aveva voglia di perdere tempo. Perché anche così erano già partite almeno tre settimane in sciocchezze.