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In un primo tempo lo colse una delusione bruciante: nella stanza non c’era nessuno. La lampada schermata da un abat-jour rosa illuminava una scrivania elegante con sopra certe carte, in un angolo, a quanto pareva, c’era un letto bianco. Non si capiva se era uno studio o una camera da letto. Erast Petrovič aspettò cinque minuti senza che succedesse niente, a parte una grassa falena che si era posata sulla lampada sbattendo le ali vellutate. Possibile gli sarebbe davvero toccato ridiscendere giù? A meno di rischiare e penetrare all’interno? Spinse appena l’infisso, che si aprì. Fandorin esitò, maledicendosi per la sua indecisione e l’indugio, ma venne fuori che aveva fatto bene a indugiare: la porta si aprì e nella stanza entrarono in due, un uomo e una donna.

La vista della donna per poco non strappò un ululato di trionfo a Erast Petrovič: era la Bežezkaja! Coi capelli neri pettinati lisci, legati da un nastro vermiglio, con la vestaglia di pizzo su cui era gettato un variopinto scialle zigano, gli sembrò di una bellezza accecante. Oh, a donne di questo genere si può perdonare qualsiasi peccato!

Rivolgendosi all’uomo — il suo viso restava nell’ombra, ma a giudicare dalla statura si trattava di mister Morbid -Amalia Kazimirovna disse in un inglese impeccabile (era una spia, doveva proprio essere una spia!): «Così si tratta proprio di lui?»

«Sì, m’lady. Senza ombra di dubbio.»

«Come mai ne siete così convinto? L’avete visto?»

«No, m’lady. Oggi era di turno Franz. Ha riferito che il ragazzino è arrivato un po’ prima delle sette. La descrizione coincideva fino al minimo dettaglio, avete indovinato perfino i baffi.»

La Bežezkaja proruppe in una risata squillante. «Comunque non lo possiamo sottovalutare, John. Il ragazzo appartiene alla razza dei fortunati, e io questo genere di persone lo conosco bene: sono imprevedibili e molto pericolose.»

Erast Petrovič ebbe un sussulto. Possibile stessero parlando di lui? Ma no, non era possibile.

«Sciocchezze, m’lady. Non avete che da prendere disposizioni… Ci vado io con Franz, e la finiamo una volta per tutte. Camera quindici al secondo piano.»

Ma allora era proprio così! Erast Petrovič alloggiava per l’appunto nella camera quindici, al terzo piano (il secondo in inglese). Ma come facevano a saperlo?! Chi glielo aveva detto?! Fandorin con uno strappo, senza badare al dolore, si staccò quei baffi vergognosamente inutili.

Amalia Kazimirovna, se davvero si chiamava così, si accigliò, la sua voce risuonò metallica: «Non osate! La colpa è mia, il mio errore lo correggo io. Per una volta in vita mia che mi sono fidata di un uomo… Una sola cosa mi stupisce, perché all’ambasciata non ci hanno fatto sapere del suo arrivo?»

Fandorin si fece tutto orecchie. Così avevano i loro all’ambasciata! Guarda guarda! E dire che Ivan Franzevič dubitava ancora! Dillo chi sono, dillo!

Senonché la Bežezkaja si mise a parlare d’altro: «Di lettere ne sono arrivate?»

«Oggi ne sono arrivate tre, m’lady», disse il maggiordomo porgendo le buste con un inchino.

«Bene, John, andate pure a dormire. Per oggi non ho più bisogno di voi», gli disse soffocando uno sbadiglio.

Dopo che la porta si fu richiusa dietro a mister Morbid, Amalia Kazimirovna con noncuranza gettò le lettere sulla scrivania e andò alla finestra. Fandorin arretrò sul cornicione, il cuore prese a battergli selvaggiamente. Guardandolo senza vederlo con gli occhi enormi persi nelle tenebre che si addensavano, la Bežezkaja (non fosse stato per il vetro, avrebbe potuto toccarla allungando una mano) borbottò fra sé in russo: «Che seccatura, perdonami Signore. Starsene qui, a inacidire…»

Dopodiché agì in modo assai strano: si avvicinò a una frivola applique a parete a forma di Amorino e premette col dito l’ombelico di bronzo del libidinoso dio adolescente. La stampa appesa lì accanto (una qualche scena di caccia) scivolò in silenzio da una parte scoprendo uno sportellino di rame dalla maniglia rotonda. La Bežezkaja allungò dalla manica eterea il sottile braccio nudo, girò la manopola a destra e a sinistra, e lo sportellino, con uno stridio melodioso, si aprì. Erast Petrovič premette il naso contro il vetro nel timore di perdersi la cosa più importante.

Amalia Kazimirovna, che somigliava come non mai a una regina egizia, si sporse graziosamente, prese qualcosa dallo scaffale e si voltò. In mano teneva una cartella di velluto azzurro.

Si sedette alla scrivania, estrasse dalla cartella una grande busta gialla, e da lì un foglio scritto fitto fitto. Aprì con un coltello le lettere ricevute e copiò qualcosa sul foglio. Questo la tenne occupata per due minuti al massimo. Dopodiché, rimessi i foglietti e le lettere nella cartella, la Bežezkaja si accese un sigarillo e fece alcune boccate guardando pensierosa un qualche punto nello spazio.

A Erast Petrovič si era intorpidito il braccio con cui si reggeva all’edera, su un fianco gli premeva dolorosamente il manico della colt, e poi avevano cominciato a dolergli anche i piedi che teneva girati in una posizione scomodissima. Non avrebbe potuto reggere a lungo così.

Finalmente Cleopatra spense il sigarillo, si alzò e si allontanò in un angolo lontano e poco illuminato della camera, dove una porta bassa si aprì, si richiuse e ne venne un rumore di acqua corrente. Evidentemente la stanza da bagno era lì.

Sulla scrivania ammiccava allettante la cartella azzurra, mentre le donne, come è noto, si occupano molto a lungo della loro toilette serale… Fandorin spinse l’anta della finestra, poggiò il ginocchio sul davanzale, e in men che non si dica si ritrovò dentro la stanza. Senza smettere di guardare in direzione del bagno, dove continuava a scorrere uniforme l’acqua, prese a svuotare la cartella.

Dentro trovò una grande pila di lettere e la già ricordata busta gialla. Sulla busta c’era questo indirizzo:

Mr. Nicholas M. Croog, Poste restante, l’Hotel des Postes, S. Petersbourg, Russie.

Anche così, niente male. Dentro c’erano dei foglietti divisi in caselle, vergati in inglese nella calligrafia inclinata ben nota a Erast Petrovič. Nella prima colonna c’era un numero, nella seconda il nome di un paese, nella terza un rango oppure una carica, nella quarta una data, nella quinta pure una data: diverse date del mese di giugno in ordine crescente. Per esempio, le ultime tre annotazioni, a giudicare dall’inchiostro, erano state appena prese, e recitavano così:

N. 1053F — Brasile — Capo della guardia personale dell’imperatore — inviato il 30 maggio — ricevuto il 28 giugno 1876

N. 852F — Stati Uniti d’America — Vicepresidente del comitato al Senato — inviato il 10 giugno — ricevuto il 28 giugno 1876

N. 354F — Germania — Presidente di tribunale di distretto — inviato il 25 giugno — ricevuto il 28 giugno 1876

Stop! Le lettere, arrivate quel giorno alla pensione a nome di miss Olsen, erano di Rio de Janeiro, Washington e Stoccarda. Erast Petrovič si immerse nella pila di lettere, alla ricerca di quella brasiliana. Dentro c’era un foglietto senza appellativo e senza firma, due sole righe in tutto:

30 maggio, capo della guardia personale dell’imperatore, N. 1053F

Così la Bežezkaja per un qualche motivo copiava il contenuto delle lettere ricevute su dei fogli, che poi spediva a Pietroburgo a un certo Messieur Nicholas Croog. A che scopo? E perché mai a Pietroburgo? E cosa voleva dire tutto questo?

Le domande facevano ressa, sorgevano una dietro l’altra, ma non c’era tempo di affrontarle: nel bagno l’acqua aveva smesso di scorrere. Fandorin ricacciò in un attimo le carte e le lettere nella cartella, ma non fece in tempo a ritirarsi dietro la finestra. Sulla soglia si fermò una sottile figura bianca.