Erast Petrovič estrasse dalla cintura la rivoltella e ordinò con un sussurro sibilante: «Signora Bežezkaja, una sola parola e vi sparo! Andate a sedervi! Svelta!»
Lei gli si avvicinò piano piano, guardandolo come incantata coi suoi occhi luccicanti, senza fondo, e si mise a sedere vicino alla scrivania.
«Com’è, non mi aspettavate?» le chiese velenoso Erast Petrovič. «Mi consideravate un imbecille?»
Amalia Kazimirovna taceva, il suo sguardo era attento e un po’ stupito, come se vedesse Fandorin per la prima volta.
«Cosa significano queste annotazioni?» chiese lui agitando la colt. «Che c’entra il Brasile? Chi si nasconde dietro questi numeri? Allora, rispondete.»
«È maturato», disse di punto in bianco la Bežezkaja con un tono di voce basso, pensieroso. «E ha tutta l’aria di essere diventato un uomo.»
Lasciò cadere una mano e la vestaglia scivolò dalla spalla tonda, così bianca, che Erast Petrovič inghiottì.
«Piccolo imbecille audace e pronto alle mani», disse lei sempre con lo stesso tono di voce basso, e lo guardò direttamente negli occhi. «E molto, molto carino.»
«Se credete di sedurmi, perdete il vostro tempo per niente», borbottò lui arrossendo. «Non sono così imbecille come credete.»
Amalia Kazimirovna disse tristemente: «Siete un povero ragazzo che nemmeno può immaginarsi in cosa si è invischiato. Un povero bel ragazzo. E ormai non vi posso più salvare…»
«Fareste bene a pensare piuttosto alla vostra, di salvezza!» disse Erast Petrovič cercando di non guardare quella maledetta spalla bianca che si denudava sempre di più. Possibile esista una pelle così luminosa, fatta di latte e neve?
La Bežezkaja si alzò di scatto, e lui indietreggiò, tenendo davanti a sé la canna.
«Sedetevi!»
«Non temete, sciocchino. Come siete colorito. Posso toccarvi?»
Allungò una mano e gli sfiorò appena la guancia con le dita.
«Come brucia… Cosa ne posso fare di voi?»
La sua seconda mano gli si appoggiò teneramente sulle dita che teneva strette intorno alla rivoltella. Gli occhi opachi, immobili, erano così vicini che Fandorin vi vide dentro riflesse due piccole lampade rosa. Una strana passività si impossessò del giovane: si ricordò di come Ippolit lo aveva preavvisato a proposito della farfallina, ma se ne ricordò in un modo come estraniato, quasi non si trattasse di lui.
Dopodiché accadde questo. Con la mano sinistra la Bežezkaja mise la colt da una parte, con la destra afferrò Erast Petrovič per il colletto e lo tirò verso di sé, colpendolo al tempo stesso nel naso con la fronte. Per il forte dolore Fandorin restò accecato, e del resto non avrebbe visto nulla comunque, perché la lampada era volata con un gran fragore per terra e si era instaurata una tenebra infernale. Per il colpo successivo — una ginocchiata all’inguine — il giovane si piegò in due, le dita gli si strinsero convulse, e una vampata illuminò la camera, si udì lo scoppio di uno sparo. Amalia inalò febbrilmente l’aria, cacciò mezzo singhiozzo, mezzo grido, e nessuno picchiò più Erast Petrovič, nessuno gli strinse più il polso. Echeggiò il rumore di un corpo che cadeva. Le orecchie gli ronzavano, lungo il mento gli scorrevano due rivoli di sangue, dagli occhi gli scendevano le la crime, e nella parte bassa dello stomaco gli faceva così male da volere una cosa sola: rannicchiarsi e aspettare che finisse, sopportare finché non fosse passato, muggire finché questo dolore insostenibile non fosse scomparso. Ma non c’era tempo di muggire, di sotto giungevano alte voci, un rimbombo di passi.
Fandorin agguantò la cartella dal tavolo, la gettò dalla finestra, montò sul davanzale e per poco non cadde, perché la sua mano stringeva ancora la rivoltella. Senza capire bene come, scese per la grondaia, aveva molta paura di non trovare più al buio la cartella, che tuttavia era ben visibile sul ghiaino bianco. Erast Petrovič la raggiunse e corse senza badare agli ostacoli attraverso i cespugli, borbottando fittamente sotto il naso: «Bravissimo questo corriere diplomatico… Ha ammazzato una donna… Signore, che fare, che fare… Se l’è comunque cercata… E io non volevo affatto… Adesso dove vado… La polizia mi cercherà… Oppure questi… Assassino… All’ambasciata non si può… Fuggire dal paese al più presto… Neanche questo è possibile… Mi cercheranno, ai porti… Per la loro cartella rivolteranno tutta la terra… Nascondersi… Buon Dio, mio buon Ivan Franzevič, che fare, che fare?…»Mentre correva Fandorin si voltò e vide una cosa che lo fece inciampare, per poco non cadde. Fra i cespugli stava immobile una figura nera in un lungo impermeabile. Al chiaro di luna biancheggiava un viso immobile, stranamente noto. Il conte Zurov!
Con un grido, ormai del tutto attonito, Erast Petrovič scavalcò il recinto, si lanciò a destra, a sinistra (da dove era arrivato il cab?), e dopo avere deciso che tanto era lo stesso corse verso destra.
UNDICESIMO CAPITOLO
Sulla Dog Island, nelle strette viuzze dietro i docks di Millwall, la notte cala velocemente. In meno di un batter d’occhio, da grigio il crepuscolo si è già fatto marrone, e i rari fanali sono accesi uno sì e uno no. C’è sporco, triste, dal Tamigi spira un’aria umida, dagli immondezzai un sentore di marcio. E le vie sono deserte, solo nei pub dall’aria sospetta e nei meublé da poco brulica una certa vita corrotta, pericolosa.
Nelle camere del Ferry road alloggiano marinai stabilitisi sulla terraferma, piccoli affaristi e vecchie battone di porto. Per sei penny al giorno si può avere una camera da letto separata senza che nessuno ficchi il naso nei propri affari. Ma i patti sono questi: in caso di danni al mobilio, di rissa e schiamazzi notturni, il padrone, Fatty Hugh, esige una multa di uno scellino, e chi rifiuti di pagare viene cacciato via in malo modo. Fatty Hugh sta dal mattino alla sera dietro il banco all’ingresso. Una postazione strategica: da lì può vedere chi entra, chi esce, se qualcuno porta qualcosa con sé o se, al contrario, vuole portarlo via. Il pubblico è variopinto, di quelli da cui ci si può aspettare di tutto.
Prendiamo per esempio quell’artista francese dai capelli rossi arruffati, che si è appena insinuato nell’ingresso passando davanti al padrone per poi sgattaiolare nella camera d’angolo. Di denaro quel mangiaranocchi ne ha: ha pagato senza obiezioni una settimana anticipata, non beve, se ne sta rintanato, è la prima volta da quando è venuto che è uscito. Hugh, va da sé, ha approfittato dell’occasione per dare un’occhiata nella sua camera, e cosa credete? Un pittore, ma in camera non tiene né colori né tele. Magari è un assassino, chi lo sa: altrimenti perché mai dovrebbe nascondere gli occhi dietro le lenti scure? Andrà mica detto alla polizia? Tanto i soldi li ha pagati in anticipo…
Intanto il pittore rossocrinuto, ignaro della pericolosa direzione presa dai pensieri di Fatty Hugh, ha chiuso la porta a chiave e si è comportato, in effetti, in modo più che sospetto. Tanto per cominciare ha accostato ermeticamente le tendine. Dopodiché ha messo sul tavolo i suoi acquisti — una pagnotta, del formaggio e una bottiglia di birra —, si è sfilato dalla cintura la rivoltella e l’ha messa sotto il cuscino. Con questo il disarmo dello strano francese non è ancora concluso. Ha estratto dal gambale degli stivali la sua derringer - una pistolettina a una sola cartuccia, di quelle che usano solitamente le signore e gli attentatori politici — e ha sistemato quest’arma dall’aspetto di giocattolo accanto alla bottiglia di birra. Dalla manica l’inquilino ha estratto uno stiletto stretto e corto e lo ha conficcato nella pagnotta. Solo dopo tutte queste operazioni ha acceso la candela, si è sfilato gli occhiali azzurri e si è stropicciato stancamente gli occhi. Ha dato un’occhiata alla finestra — casomai si fossero scostati gli scuri — e, sfilatasi dalla testa la parrucca rossa, si è rivelato per nient’altri che Erast Petrovič Fandorin.