Il pasto fu concluso in cinque minuti: evidentemente il consigliere titolare nonché assassino fuggiasco aveva cose più importanti da sbrigare. Spazzate via dal tavolo le briciole, Erast Petrovič si ripulì le mani con il lungo camicione bohémien, si diresse verso la logora poltrona nell’angolo, frugò sotto il rivestimento e ne estrasse la cartella azzurra. Fandorin bruciava dall’impazienza di concludere il lavoro che lo aveva tenuto occupato tutto il giorno e lo aveva già portato a una scoperta molto importante.
Dopo i tragici eventi della notte precedente, Erast Petrovič si era visto costretto a passare dall’albergo per prendere se non altro il suo denaro e il passaporto. Provi pure ad andarci adesso il caro amico Ippolit, quella canaglia, quel Giuda, vada pure a cercare «Erasmus von Dorn» per stazioni e porti con i suoi scagnozzi. A chi mai avrebbe potuto interessare un povero pittore francese, alloggiato nella peggiore cloaca dei bassifondi londinesi? Be’, e se gli era toccato ugualmente rischiare e mettere in atto una sortita alla posta, per questo aveva un motivo speciale.
Ma Zurov! Il ruolo da lui svolto in questa storia non era del tutto chiaro, ma in ogni caso appariva riprovevole. Non era semplice sua eccellenza, non era affatto semplice! Che giri complicati aveva descritto il caro ussaro gagliardo, un’anima davvero aperta. Con quale abilità gli aveva rifilato l’indirizzo, come aveva calcolato tutto! In due parole: un vero maestro del gioco. Sapeva che lo stupido pesciolino avrebbe abboccato, avrebbe inghiottito l’esca insieme all’amo. O forse non esattamente un pesciolino, visto che sua eccellenza aveva detto qualcosa di allegorico a proposito di una farfallina. La farfallina era volata sul fuoco, c’era volata buona buona. E manca poco ci si era bruciata. Se l’è proprio meritato, l’imbecille. Non era forse più che chiaro che la Bežezkaja e Ippolit avevano chissà quale interesse in comune? Solo un babbeo romantico, come il nostro consigliere titolare (promosso fra l’altro a questo titolo passando sopra ad altre più degne persone) poteva credere seriamente a una passione fatale in stile castigliano. E come se non bastasse, aveva confuso le idee anche a Ivan Franzevič! Che vergogna! Ha ha! Con che belle parole si era espresso il conte Ippolit Aleksandrovič: «L’amo e la temo, quella strega, la strangolerò con le mie mani!» Ecco come doveva essersi burlato di quel lattante! E con quale abilità di cesellatore aveva curato ogni dettaglio, non peggio che in occasione del duello. Il calcolo era semplice e impeccabile: occupi la tua postazione all’albergo Winter Queen e te ne stai lì ad aspettare in tutta tranquillità che la stupida farfallina «Erasm» venga a volare sulla candela. Qui non è mica Mosca, non ci sono né l’investigativo, né le guardie, non ci vuole niente ad acchiappare Erast Fandorin a mani nude. E tanti saluti. Non sarà poi Zurov quel «Franz» ricordato dal portiere? Uh, che schifosi cospiratori. E chi sarà il capo, Zurov o la Bežezkaja? Tutto sommato sembrerebbe lei, il capo… Erast Petrovič si rannicchiò al ricordo degli eventi della notte passata e del grido lamentoso con cui era crollata Amalia ferita a morte. Magari non a morte? No, magari l’aveva solo ferita ma non uccisa. Eppure il brivido d’angoscia al cuore gli suggeriva che l’aveva uccisa, proprio uccisa la bella regina, e che a Fandorin sarebbe toccato vivere con quel pesante fardello fino alla fine dei suoi giorni.
È vero che era possibilissimo che questa fine fosse a un passo. Zurov sapeva chi era l’assassino, l’aveva visto. Probabilmente gli stavano già dando la caccia da un capo all’altro di Londra, dell’intera Inghilterra. Ma per quale motivo Zurov lo aveva lasciato andare quella notte, gli aveva dato la possibilità di svignarsela? Che abbia avuto paura della pistola di Fandorin? Sembra inspiegabile…
Comunque c’era un enigma ancora più indecifrabile: il contenuto della cartella. Per un bel po’ Fandorin non riuscì proprio a capire cosa significasse il misterioso elenco. Il confronto indicava che le annotazioni sul foglio riportavano puntuali lo stesso numero delle lettere, e i dati coincidevano uno per uno. Sennonché oltre alla data indicata nella lettera, la Bežezkaja aveva annotato anche la data del ricevimento.
Le annotazioni erano in tutto quarantacinque. La prima era datata 1° giugno, le ultime tre erano state prese mentre Erast Petrovič si trovava a Londra. I numeri progressivi delle lettere erano tutti diversi; il più basso era il N. 47F (Regno del Belgio, direttore di dipartimento, ricevuto il 15 giugno), il più alto era il N. 2347F (Italia, sottotenente dei dragoni, ricevuto il 9 giugno). Si contavano nove paesi di provenienza. I più frequenti erano l’Inghilterra e la Francia. La Russia compariva una volta sola (N. 994F, consigliere di Stato effettivo, ricevuto il 26 giugno, sulla busta timbro di Pietroburgo del 7 giugno. Uff, bisognava non fare confusione di calendari: il 7 giugno secondo il calendario europeo era il 19. Quindi sarebbe arrivato in una settimana). Le cariche e i ranghi ricordati erano per lo più elevati: generali, ufficiali superiori, un ammiraglio, un senatore, perfino un ministro portoghese, ma ci si imbatteva anche in pesci piccoli come il sottotenente italiano, un investigatore giudiziario francese oppure un capitano della guardia di frontiera dell’Austria-Ungheria.
Nel complesso si aveva l’impressione che la Bežezkaja fosse un’intermediaria, un anello di congiunzione, una casella postale vivente, nei cui obblighi rientrava registrare le informazioni ricevute e indirizzarle altrove; a quanto pareva, a mister Nicholas Croog, a Pietroburgo. Era ragionevole supporre che gli elenchi venissero inviati una volta al mese. Era chiaro anche che prima della Bežezkaja il ruolo di «miss Olsen» era stato ricoperto da chissà quale altra persona, fatto che il portiere dell’albergo nemmeno sospettava.
Con questo le evidenze si esaurivano e insorgeva la neces sita bruciante del metodo deduttivo. Eh, ci fosse stato lì il capo, in un attimo avrebbe elencato ogni possibile ipotesi, e tutto si sarebbe classificato da solo. Ma il capo era lontano, mentre s’imponeva questa conclusione: Brilling aveva ragione, mille volte ragione. Si trattava evidentemente di un’organizzazione segreta ramificata con membri in numerosi paesi — e uno. La Regina Vittoria e Disraeli non c’entravano niente (altrimenti a che scopo inviare i rapporti a Pietroburgo?) — e due. Quanto alle spie inglesi, Erast Petrovič aveva fatto un buco nell’acqua, mentre qui c’era proprio sentore di nichilisti — e tre. E i fili non tiravano in una qualche direzione ignota, ma proprio in Russia, dove si trovano i più terribili e irriducibili nichilisti — e fa quattro. E fra loro quel vile camaleonte di Zurov.
Mettiamo pure che il capo avesse ragione, ma le spese di viaggio di Fandorin non erano certo state sostenute invano. Ivan Franzevič non se lo sarebbe sognato nemmeno nel peggiore degli incubi di trovarsi in guerra con un’idra di tale potenza. Qui non si trattava di studenti e di signorine isteriche con le loro piccole bombe e pistole, qui c’era tutto un ordinamento segreto, a cui partecipavano ministri, generali, procuratori, e perfino chissà quale consigliere effettivo di Stato di Pietroburgo!
A questo punto su Erast Petrovič cadde l’illuminazione (avveniva già dopo mezzogiorno): Consigliere effettivo di Stato e nichilista? Chissà perché non voleva entrargli in testa. Finché si trattava del capo della difesa dell’imperatore del Brasile, gli poteva ancora andare bene; Erast Petrovič non era mai stato in Brasile e non immaginava quali fossero gli ordinamenti locali, ma l’immaginazione rifiutava decisamente di figurarsi un generale di Stato russo con la bomba. Un effettivo di Stato Fandorin lo aveva conosciuto abbastanza da vicino: Fedor Trifonovič Sevrjugin, direttore del ginnasio di governatorato dove aveva studiato per ben sette anni. Che fosse un terrorista? Sciocchezze!