Ma di colpo a Fandorin si strinse il cuore. Non erano affatto terroristi, tutti questi signori solidi e rispettabili! Erano semmai le vittime del terrore! Si trattava dei nichilisti di vari paesi, cifrati ciascuno sotto il suo numero, che facevano rapporto allo Stato maggiore centrale rivoluzionario sugli atti terroristici da loro compiuti!
Eppure no, a giugno non era stato ucciso nessun ministro in Portogallo; ne avrebbero scritto tutti i giornali… Allora doveva trattarsi di vittime future, ecco! I «numeri» chiedevano al loro Stato maggiore l’autorizzazione a compiere un atto terroristico. Mentre i nomi non venivano indicati per via della congiura.
Così ogni cosa andava al suo posto, trovava una spiegazione. Dopotutto Ivan Franzevič aveva detto qualcosa a proposito di un filo che si estendeva da Achtyrzev fino a una certa dacia nei dintorni di Mosca, ma Fandorin non aveva dato retta al suo capo, infiammato com’era dai suoi deliri spionistici.
Ferma. E del sottotenente dei dragoni cosa se ne facevano? Dopotutto non era quel gran pezzo grosso. Ma si spiegava benissimo, si rispose subito Erast Petrovič. Si vede che lo sconosciuto italiano gli aveva messo i bastoni fra le ruote. Allo stesso modo a suo tempo aveva messo i bastoni fra le ruote a un assassino dagli occhi bianchi un giovane della polizia investigativa di Mosca.
Che fare? Mentre lui sta lì, quante degnissime persone si trovano in pericolo di morte! A Fandorin faceva pena soprattutto lo sconosciuto generale di Pietroburgo. Doveva trattarsi di una persona perbene, non più giovane, benemerito, con dei bambini piccoli… E a quanto pareva questi carbonari ogni mese spedivano le loro criminose relazioni. Così in Europa non sarebbe passato giorno senza che scorresse del sangue! E i fili portavano tutti non in un posto qualsiasi, ma a Pietroburgo. Qui a Erast Petrovič tornarono in mente le parole pronunciate una volta dal suo capo: «Lì la sorte della Russia è appesa a un filo». Eh, Ivan Franzevič, eh, signor consigliere di Stato, non la sorte della sola Russia, ma dell’intero mondo civilizzato.
Bisognava informare il segretario Pyžov, e in segreto, affinché il traditore dell’ambasciata non fiutasse nulla. Ma come? Perché il traditore poteva essere chiunque, e per Fandorin era pericoloso farsi vedere vicino all’ambasciata, sia pure in veste di francese dai capelli rossi con camicione da pittore… Non restava che rischiare. Spedire con la posta cittadina a nome del segretario di governatorato Pyžov e scrivere «s. p. m.». Nulla di più, solo il suo indirizzo e un saluto da Ivan Franzevič. È un uomo intelligente, avrebbe capito tutto da solo. Mentre dicono che qui la posta cittadina consegna le lettere al destinatario entro un paio d’ore.
Così agì Fandorin e adesso, la sera, eccolo che aspettava di sentire qualcuno bussare cautamente alla porta.
Non bussò nessuno. Avvenne tutto in un modo completamente diverso.
Tardi la sera, già passata la mezzanotte, Erast Petrovič era seduto sulla poltrona sdrucita dove teneva nascosta la cartella azzurra, e dormicchiava lasciando ciondolare la testa. La candela sul tavolo era bruciata quasi fino in fondo, negli angoli della camera si era addensata una tenebra malevola, dietro la finestra tuonava fragorosa la tempesta che si stava avvicinando. Nell’aria avvertiva qualcosa di angoscioso e di soffocante, come se un essere corpulento, invisibile, gli si fosse seduto sul petto ostacolandogli il respiro. Fandorin oscillava da qualche parte al confine incerto fra la veglia e il sonno. Pensieri importanti, concreti, si impantanavano all’improvviso in una qualche inutile scemenza, e allora il giovane, tornando in sé, scrollava la testa per non venire trascinato nel gorgo del sonno.
Durante una di queste schiarite avvenne un fatto strano. All’inizio echeggiò un incomprensibile, sottile pigolio. Poi, senza credere ai suoi occhi, Erast Petrovič vide che la chiave, infilata nella toppa, si era messa a girare da sola. La porta, con un cigolio assai ripugnante, scivolò lungo il cardine verso l’interno, e sulla soglia si manifestò una singolare visione: un signore basso e minuto di età indefinita con un visino rasato, rotondo, e gli occhi sottili in una raggiera di piccole rughe.
Fandorin, con uno strattone, agguantò la sua derringer dal tavolo, mentre la visione, sorridendo soave e annuendo soddisfatta, prese a tubare con una vocetta di tenore molto piacevole e mielata: «Eccomi qui, caro fanciullo. Porfirij figlio del fu Martyn e di cognome faccio Pyžov, servo del Signore e segretario di governatorato. Sono volato al vostro primo cenno. Come il vento al richiamo di Eolo».
«Come avete fatto ad aprire la porta?» chiese spaventato Erast Petrovič. «Mi ricordo che avevo chiuso a doppia mandata.»
«Ecco come, con un grimaldellino magnetico», spiegò di buon grado l’ospite a lungo atteso, e mostrò un bastoncino allungato, che peraltro gli sparì subito in tasca. «Una cosetta utilissima. Me l’ha prestato un ladro del posto. Per il mio genere di occupazione mi capita di entrare in rapporto con soggetti spaventosi, abitanti del fondo più fondo della società. Dei perfetti miserabili, ve lo assicuro. Il signor Hugo gente del genere nemmeno se la sognava. Ma dopotutto sono anime umane anche quelle, e a loro ci si può avvicinare. Io quei mascalzoni pure li amo e in parte li colleziono. Come ha detto il poeta: ciascuno si diverte come può, ma tutti li impastoia la stessa morte. O, come dicono i tedeschi, ‘jedes Tierchen hat sein Plaisirchen’, ogni bestiolina ha i suoi giocattoli.»
A quanto pareva, quello strano personaggio era in grado di cianciare su qualsiasi argomento senza la benché minima difficoltà, ma i suoi occhietti prensili non perdevano invano il loro tempo, rovistarono a fondo sia lo stesso Erast Petrovič sia gli arredi della modesta cameretta.
«Sono Erast Petrovič Fandorin, mi manda il signor Brilling. Per una faccenda molto importante», disse il giovane, sebbene la prima e la seconda cosa fossero indicate nella lettera, quanto alla terza Pyžov senza dubbio l’aveva già indovinata da solo. «Però non mi ha dato nessuna parola d’ordine. Probabilmente se ne è dimenticato.»
Erast Petrovič guardò ansiosamente Pyžov, dal quale adesso dipendeva la sua salvezza, ma quello si limitò ad alzare di scatto le manine dalle corte dita: «E non c’è bisogno di nessuna parola d’ordine. Sciocchezze e svaghi infantili. Forse che un russo non riconosce un altro russo? A me basta guardare nei vostri occhi limpidi (Porfirij Martynovič gli venne a un passo), e vedo tutto distintamente. Un giovane puro, audace, di nobili inclinazioni e un patriota. E come potrebbe essere altrimenti, nella nostra istituzione non ne tengono altri».
Fandorin aggrottò la fronte; gli pareva che il segretario di governatorato facesse lo scemo, lo trattasse da insensato. Per questo Erast Petrovič espose il suo caso per sommi capi e seccamente, senza nessuna emozione. Qui si chiarì che Porfirij Martynovič era capace non solo di chiacchierare a vanvera, ma anche di ascoltare con attenzione, in questo aveva un vero talento. Pyžov si mise a sedere sul letto, intrecciò le mani sulla pancia, socchiuse del tutto gli occhi che già a cose normali erano una fessura, e fu come se non ci fosse. In altre parole, si mutò letteralmente in puro udito. Pyžov non lo interruppe una sola volta mentre parlava, non una sola volta si mosse. Tuttavia di tanto in tanto, nei momenti cruciali del racconto, sotto le palpebre socchiuse gli balenava una penetrante scintilla.
Erast Petrovič non si diede a esporre la sua ipotesi a proposito delle lettere — se la tenne per Brilling, e per ultimo disse: «E così, Porfirij Martynovič, avete davanti un fuggiasco e un assassino involontario. Ho bisogno di passare al più presto sul continente. Devo andare a Mosca, da Ivan Franzevič».
Pyžov ruminò con le labbra, aspettò per vedere se avrebbe detto ancora qualcosa, poi gli chiese a voce bassa: «E la cartellina? Non sarebbe meglio spedirla con la posta diplomatica? Così siamo più sicuri che arriva. Non si sa cosa aspettarsi… Si tratta di gente seria, a giudicare da tutto, si metteranno a cercarvi in Europa. Attraverso lo stretto, certo, angelo mio, vi farò passare, non è una cosa difficile. Se non disdegnate un fragile scafo da pesca, già domani potrete partirvene con Dio. Col vento Eolo in poppa».