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Be’, per ora Erast Petrovič era piuttosto lontano dall’illuminazione, ma grazie a esercizi quotidiani aveva già imparato a trattenere il respiro fino a cento secondi. Fece ricorso a questo mezzo affidabile anche adesso. Si riempì il petto d’aria e restò fermo, «si mutò in albero, in pietra, in erba». E ciò gli fu d’aiuto; il battito del cuore a poco a poco tornò regolare, l’orrore dileguò. Arrivato fino a cento, Fandorin espirò rumorosamente, tranquillizzato dalla vittoria dello spirito sulla superstizione.

E allora si udì un suono che gli fece battere rumorosamente i denti. Qualcuno graffiava alla porta.

«Lasciami entrare», sussurrò una voce. «Guardami. Ho freddo. Lasciami entrare…»

Questo era troppo, pensò indignato Fandorin con quanto gli restava del suo orgoglio. Adesso apro la porta e mi sveglio. Altrimenti… Altrimenti vedrò che non si tratta di un sogno.

Con due balzi raggiunse la porta, tolse il paletto e tirò verso di sé il battente. Con questo il suo slancio disperato si esaurì.

Sulla soglia c’era Amalia. Indossava una bianca vestaglia di pizzo, come l’ultima volta, però aveva i capelli spettinati per la pioggia, e sul petto le si allargava una macchia di sangue. La cosa più spaventosa di tutte era il viso che brillava di una luce non terrestre, con gli occhi immobili e spenti. Una mano bianca, luccicante di scintille, si allungò verso il viso di Erast Petrovič e gli toccò la guancia, proprio come l’altra volta, solo che dalle dita promanava un tale freddo, un tale gelo, che l’infelice Fandorin, lì lì per uscire di senno, arretrò di un passo.

«Dov’è la cartella?» chiese il fantasma con un sibilo sussurrato. «Dov’è la mia cartella? Per lei ho venduto l’anima.»

«Non la do!» uscì dalle labbra secche di Erast Petrovič. Indietreggiò verso la poltrona, nelle cui viscere era nascosta la cartella rapita, si lasciò cadere sul sedile e per maggiore sicurezza la abbracciò.

La visione si avvicinò al tavolo. Sfregato un fiammifero, accese la candela e gridò di colpo con voce squillante: «Your turn now! He’s all yours!»

Nella camera irruppero in due: l’altissimo Morbid, con la testa che gli arrivava fino al soffitto, e un altro piccoletto e agile.

Fandorin, ormai del tutto confuso, non si mosse nemmeno quando il maggiordomo gli mise un coltello alla gola, mentre il secondo gli frugava abilmente i fianchi e gli trovò la derringer nel gambale degli stivali.

«Cerca la rivoltella», ordinò Morbid in inglese, e lo svelto non lo deluse: in un attimo scoprì la colt nascosta sotto il cuscino.

Per tutto il tempo Amalia era rimasta alla finestra, a pulirsi viso e mani con un fazzoletto.

«Allora, è tutto?» chiese con impazienza. «Che schifo questo fosforo. E, soprattutto, l’intera mascherata non aveva senso. Non ha nemmeno il cervello di nascondere la cartella come si deve. John, cercate nella poltrona.»

A Fandorin non rivolse nemmeno uno sguardo, come se di colpo si fosse trasformato in un oggetto inanimato.

Morbid tolse facilmente Erast Petrovič dalla poltrona, senza smettere di puntargli la lama alla gola, mentre lo svelto infilava un braccio nel sedile e ne estraeva la cartella azzurra.

«Datemela.»La Bežezkaja si avvicinò al tavolo, controllò il contenuto. «Tutto a posto. Non ha fatto in tempo a spedirla. Grazie a Dio. Franz, portatemi l’impermeabile, sono tutta intirizzita.»

«Allora era tutta una messinscena?» pronunciò con voce incerta Fandorin che stava riprendendo coraggio. «Complimenti! Siete una grande attrice. Sono contento che la mia pallottola vi abbia mancata. Sarebbe stato un peccato perdere un talento simile…»

«Non dimenticate il bavaglio», disse Amalia al maggiordomo e, gettatosi sulle spalle l’impermeabile portato da Franz, uscì dalla camera senza nemmeno voltarsi a guarda re lo svergognato Erast Petrovič.

Il piccoletto svelto — ecco chi sorvegliava l’albergo, non certo Zurov — prese di tasca un gomitolo di cordicella sottile e legò strettamente le braccia del prigioniero ai fianchi. Poi afferrò Fandorin con due dita per il naso e quando Erast Petrovič, che si sentiva soffocare, aprì la bocca, ci infilò una pera di gomma.

«Ordine», dichiarò Franz con accento tedesco, soddisfatto del risultato. «Porto il sacco.»

Corse nel corridoio e tornò velocissimo. L’ultima cosa vista da Erast Petrovič prima che gli calassero sulle spalle una rozza tela di sacco che gli arrivava fino alle ginocchia, fu l’impassibile, assolutamente pietrificata fisionomia di John Morbid. Peccato, certo, che il mondo sublunare mostrasse proprio questo come addio a Erast Petrovič, non il più allettante dei visi, tuttavia nel buio polveroso del sacco le cose andarono ancora peggio.

«Dammi qua che lo lego ancora di sopra con una corda», giunse la voce di Franz. «Non c’è da portarlo troppo lontano, ma così è più sicuro.»

«Ma dove vuoi che vada?» gli rispose Morbid con voce di basso. «Provi solo a muoversi, e gli ficco il coltello in pancia.»

«Ma noi leghiamolo lo stesso», cantilenò Franz, e strinse così forte il sacco con la corda che Erast Petrovič cominciò a respirare a fatica.

«Parti girando!» disse il maggiordomo dando uno spintone al prigioniero, e Fandorin si mosse in avanti alla cieca, senza che gli fosse chiaro perché non lo potessero sgozzare direttamente lì, in camera.

Inciampò due volte, sulla soglia della pensione per poco non cadde, ma la zampa di John lo agguantò in tempo per una spalla.

C’era odore di pioggia, i cavalli nitrivano.

«Voi due, appena avete finito, tornate qui e riordinate», si udì la voce della Bežezkaja. «Io torno a casa.»

«State tranquilla, m’lady», ruggì il maggiordomo. «Avete fatto il vostro lavoro, noi facciamo il nostro.»

Oh, che voglia aveva Erast Petrovič" di dire ad Amalia per l’ultima volta qualcosa di unico, di speciale, perché si ricordasse di lui non come di un insulso ragazzino impaurito, ma di un audace caduto valorosamente nella lotta impari contro un intero esercito di nichilisti. Ma la maledetta pera lo privava perfino di quell’ultima soddisfazione.

Mentre a questo punto toccò al povero giovane un trauma ulteriore, sebbene c’era da chiedersi, dopo tutto quello che già gli era capitato, che altri traumi potevano ancora esserci.

«Anima mia Amalia Kazimirovna», disse in russo la nota, affettuosa voce tenorile. «Permettete a questo vecchierello di venire in carrozza con voi. Chiacchiereremo del più e del meno, e starò più all’asciutto, lo vedete da sola che sono bagnato fradicio. E il vostro Patrick vada pure con la mia carrozzella. Non avete nulla in contrario, amorino?»

«Sedetevi», rispose seccamente la Bežezkaja. «Ma quanto a chiamarmi anima vostra e amorino, Pyžov, scordatevelo.»

Erast Petrovič muggì sordamente, perché mettersi a singultire con la pera in bocca non era proprio possibile. Il mondo intero s’era alleato contro l’infelice Fandorin. Dove trovare forza bastante per sgominare in battaglia una tale turba di malfattori? Intorno aveva solo traditori, aspidi velenose (pfui, si era lasciato contagiare dalla verbosità di quel maledetto Porfirij Martynovič!). E la Bežezkaja coi suoi tagliateste, e Zurov, e perfino Pyžov, voltagabbana, tutti nemici. Non aveva nessuna voglia di vivere in quel momento Erast Petrovič, provava un tale disgusto, una tale stanchezza.

Del resto, nessuno stava cercando con troppa insistenza di convincerlo a vivere. A quanto pareva i suoi accompagnatori avevano tutt’altri progetti sul suo conto.