Forti mani agguantarono il prigioniero e lo misero sul sedile. Alla sua sinistra s’era piazzato il pesante Morbid, alla sua destra il leggero Franz che schioccò la frusta, e Erast Petrovič ricadde all’indietro.
«Dove?» chiese il maggiordomo.
«Hanno detto al sesto molo. Lì è più profondo e c’è la corrente. Cosa ne pensi?»
«Per me è tutto uguale. Hanno detto al sesto; allora al sesto.»
E così la sorte che attendeva Erast Petrovič pareva assai chiara. Lo portavano a un qualche ancoraggio profondo, gli legavano una pietra e lo spedivano sul fondale del Tamigi, a marcire fra catene d’ancora arrugginite e cocci di bottiglia. Scomparirà senza lasciare traccia il consigliere titolare Fandorin, perché risulta che non l’ha visto anima viva dopo l’agente militare di Parigi. Ivan Franzevič capirà che il suo pupillo è inciampato da qualche parte, ma la verità non la saprà mai… E non verrà mai loro in mente, a Mosca o Pietroburgo, che un rettile schifoso si è infiltrato nel loro servizio segreto. Ecco chi andrebbe smascherato.
Ma chissà, magari si riesce ancora a smascherarlo.
Perfino così legato com’era e infilato in un sacco lungo e polveroso, Erast Petrovič si sentiva incomparabilmente meglio di venti minuti prima, quando alla finestra lo guardava fisso il fantasma fosforescente e lui si sentiva paralizzato dall’orrore.
Il fatto è che il prigioniero una possibilità di salvezza l’aveva. Era furbo, Franz, ma non aveva pensato a tastargli la manica destra. In quella manica teneva uno stiletto, era quella tutta la sua speranza. Se solo gli fosse riuscito di arrivare con le dita fino all’impugnatura… Oh, non era semplice, con il braccio legato al fianco. Quanta strada c’era ancora fino al sesto molo? Avrebbe fatto in tempo?
«Sta’ fermo», disse Morbid allungando una gomitata al fianco del prigioniero che non faceva che dimenarsi (con tutta probabilità per la paura).
«Tanto, amichetto, puoi rigirarti quanto ti pare e piace, fa tutto lo stesso», osservò Franz da filosofo.
L’uomo nel sacco si agitò ancora un po’, poi emise un sordo stridio dopodiché si chetò, probabilmente si era rassegnato con la sua sorte (quel maledetto stiletto prima di uscire gli aveva fatto male tagliandogli il polso).
«Siamo arrivati», dichiarò John guardandosi intorno da ogni lato. «Non c’è nessuno.»
«E chi dovrebbe mai esserci con questo diluvio, di notte?» chiese Franz alzando le spalle. «Senti un po’, diamoci una mossa. Abbiamo ancora da tornare indietro.»
«Prendilo per i piedi.»
Afferrarono l’involto stretto dalla corda e lo posarono sulle assi di legno della banchina d’attracco, che sovrastava l’acqua nera come una freccia.
Erast Petrovič udì un cigolio di tavole sotto ai piedi, lo sciabordio del fiume. La liberazione era vicina. Non appena le acque del Tamigi si fossero richiuse sulla sua testa, avrebbe squarciato con la lama i legacci, tagliato il sacco e quatto quatto sarebbe riemerso sotto al molo. Doveva restare lì un po’ finché quelli non se ne fossero andati, ed ecco fatto: la salvezza, la vita, la libertà. E questo sembrava così semplice e facile, che una voce interna sussurrò di colpo a Fandorin: no, Erast, nella vita non succede così, capiterà per forza una qualche schifezza che rovinerà fino in fondo il tuo piano meraviglioso.
Ahimè, la voce interiore gli predisse veramente il male, gli portò addosso la sventura. La schifezza non tardò infatti a delinearsi, e non da parte di quell’incubo di mister Morbid, ma per iniziativa del buon Franz.
«Aspetta, John», disse costui dopo che si erano fermati in fondo al molo e avevano deposto il loro carico sulla piattaforma. «Così non va bene, gettare un uomo vivo in acqua, come un cucciolo. Ti piacerebbe al suo posto?»
«No», rispose John.
«Allora», si rallegrò Franz. «Lo dico anch’io. Mandare di traverso quel liquido marcio, sporco. Brrr. Non lo augurerei a nessuno. Vediamo di comportarci da bravi cristiani: prima gli tagliamo la gola, perché non soffra. Tzac, ed è fatta, eh?»
Questa filantropia fece star male Erast Petrovič, ma il caro, meraviglioso mister Morbid sbraitò: «Sì, così mi sporco di sangue il coltello. E poi mi schizzo anche le maniche. Come se non ne avessimo già avuti abbastanza di pensieri per questo cagnolino. Che vuoi che sia, tanto deve morire lo stesso. Se sei così buono, strangolalo con la corda, in questo sei un maestro, intanto io vado a cercare un pezzo di ferro».
I suoi passi pesanti si allontanarono, e Fandorin restò solo con quel samaritano di Franz.
«Non bisognava legare il sacco di sopra», disse quello pensieroso. «Si è usata tutta la corda.»
Erast Petrovič emise un muggito d’approvazione: come dire, fa niente, non prendertela, in qualche modo me la caverò.
«Eh, poveretto», sospirò Franz. «Come si lamenta, spezza il cuore. D’accordo, ragazzo, non aver paura. Per te lo zio Franz non risparmierà la sua cinghia.»
Si udirono dei passi che si avvicinavano.
«Ecco un pezzo di binario. Farà alla bisogna», tuonò il maggiordomo. «Infilalo sotto alla corda. Non tornerà a galla prima di un mese.»
«Aspetta un attimo, solo il tempo di stringergli il cappio.»
«Ma piantala con le tue tenerezze! Il tempo non aspetta, presto sarà l’alba.»
«Scusa, ragazzo!» disse Franz pietoso. «Si vede che la tua sorte è questa. Das hast du dir selbst zu verdanken.»
Risollevarono Erast Petrovič, cominciarono a farlo dondolare.
«Azazel!» esclamò Franz con voce severa, trionfante, e un attimo dopo il corpo fasciato piombò con un tonfo nell’acqua putrida.
Fandorin non avvertì il freddo e nemmeno la pesantezza oleosa del suo scafandro mentre squarciava con lo stiletto la corda fradicia. Più di tutto gli diede daffare il braccio destro, ma appena l’ebbe liberato, tutto si svolse rapidamente: uno! e la mano sinistra prese ad aiutare la destra; due! e il sacco fu tagliato dall’alto in basso; tre! e il pesante spezzone di binario affondò nella soffice melma; quattro!
Adesso bisognava soltanto non venire a galla anzitempo. Erast Petrovič si spinse indietro con le gambe, mentre le mani le mise avanti per scivolare nella torbida oscurità. Lì da qualche parte, del tutto vicino, dovevano trovarsi i sostegni su cui poggiava il molo. Ecco che le dita toccarono del legno scivoloso, ricoperto di alghe. Piano, senza fretta, su per la colonna. Ma senza tonfi, senza far rumore.
Sotto le assi di legno del molo era buio pesto. Di colpo l’acqua nera sputò senza un suono dalle sue viscere una macchia tonda e bianca. Nel cerchio bianco subito se ne formò un altro, piccolo e nero: era il consigliere titolare Fandorin che inghiottiva con avidità l’aria del fiume. Odorava di marcio e di cherosene. Era la magica fragranza della vita.
Frattanto di sopra, sul molo, si svolgeva una conversazione in tutta calma. Nascosto lì sotto ascoltava ogni parola. Capitava un tempo a Erast Petrovič di ridursi in lacrime di commozione immaginando con quali parole gli amici e i ne mici lo avrebbero ricordato, lui, l’eroe perito anzitempo, che discorsi sarebbero stati pronunciati sulla sua bara scoperta. Si può ben dire che tutta la sua giovinezza era passata in queste fantasticherie. Quale non fu l’indignazione del giovane all’udire di che sciocchezze stavano discorrendo coloro che si ritenevano i suoi assassini! E nemmeno una parola a proposito dell’essere su cui si erano richiuse le buie acque, del giovane dotato di una tale mente e di una tale intelligenza, di un’anima nobile e aspirazioni elevate!
«Ahi, questa passeggiatina mi costerà un bell’attacco di reumatismi», sospirò Franz. «Spira un’umidità. Ma cosa ci stiamo a fare qui? Andiamo, eh?»
«È ancora presto.»
«Senti, con tutta questa confusione io sono rimasto senza cena. Che dici, ci daranno qualcosa da mangiare o ci inventeranno qualche altro lavoretto?»