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«Non sta a noi saperlo. Quello che diranno lo faremo.»

«Potessimo almeno prenderci un po’ di vitello freddo. Mi brontola lo stomaco… Davvero ce ne andremo via dal solito posto? Mi ci ero appena sistemato, mi ci stavo abituando. A che scopo? Dopotutto si è risolta ogni cosa.»

«Lo sa la signora il perché. Se ha ordinato così, vuol dire che bisogna.»

«Questo è esatto. La signora non fa errori. Per lei tutto quello che vuoi, non avrei pietà del mio papà. Se l’avessi, naturalmente. Nemmeno la nostra vera madre avrebbe fatto per noi tutto quello che ha fatto per noi la signora.»

«Va da sé… Basta, andiamo.»

Erast Petrovič aspettò che i passi si spegnessero in lontananza, per sicurezza contò ancora fino a trecento e solo a quel punto si avvicinò a riva.

Quando con grande fatica, dopo essere caduto alcune volte, riuscì a salire sul parapetto del lungofiume, piuttosto basso ma quasi perpendicolare, le tenebre avevano già iniziato a dissolversi strette dall’assedio dell’alba. Il presunto annegato era percosso dai brividi, gli battevano i denti, e per giunta gli era venuto anche il singhiozzo; si vede che aveva inghiottito l’acqua putrida del fiume. Ma vivere era comunque straordinario. Erast Petrovič abbracciò con sguardo amorevole il grigio spazio fluviale (da quella parte brillavano carezzevolmente dei fuocherelli), si intenerì della buona qualità del tozzo magazzino, approvò il ritmico dondolio delle chiatte e delle lance attraccate lungo al molo. Un sorriso spensierato illuminava il viso bagnato, rigato di pece sulla fronte, del risorto dai morti. Si stirò con gusto, e raggelò in quella posizione assurda: dall’angolo del magazzino si era staccata una silhouette assai bassa, veloce, che gli muoveva svelta incontro.

«Che razza di erodi, che bestie», lamentava cammin facendo la silhouette con una vocina sottile, udibile da lontano. «Non gli si può proprio affidare niente, per ogni cosa bisogna sorvegliarli. Ma dove andrebbe a finire questa gente senza Pyžov, dove? Sareste perduti come dei cagnolini ciechi, sareste perduti!»

In preda all’ira del giusto, Fandorin si lanciò in avanti. Il traditore aveva tutta l’aria di credere che la sua satanica apostasia non fosse stata scoperta.

Tuttavia in mano al segretario di provincia brillò con luccichio malaugurante qualcosa di metallico, e Erast Petrovič dapprima si fermò, e poi arretrò.

«Avete calcolato bene, fragolino mio», lo approvò Pyžov, lasciando vedere quanto fosse elastica e felina la sua andatura. «Siete un ragazzo intelligente, l’ho accertato subito. Lo sapete cosa ho qui?» disse brandendo il suo pezzo di ferro, al che Fandorin scorse una pistola a due canne di un calibro insolitamente grosso. «Un pezzo spaventoso. Nel gergo malavitoso di qui si chiama ‘smasher’. Qui, vogliate guardare, si infilano due pallottole esplosive — le stesse che sono state proibite alla convenzione di Pietroburgo del ‘68. Ma dopotutto sono dei criminali, Erast, del malfattori. Gliene importa tanto a loro di una convenzione filantropica! Mentre la pallottolina esplosiva, non appena finisce nel tenero, sboccia tutta in tanti bei petali. La carne, le ossicine, le venuzze le trasforma tutte in ripieno tritato. E voi, mio caro, non complicatemi le cose, non muovetevi di scatto, altrimenti dallo spavento sparo, e poi non mi perdonerei una bestialità del genere, mi pentirei. Fa molto male, se finisce nello stomaco o da qualche altra parte lì vicino.»

Singhiozzando, ormai non più per il freddo ma per la paura, Fandorin gridò: «Iscariota! Hai venduto la patria per trenta rubli d’argento!» e di nuovo si allontanò dalla canna minacciosa.

«Come ha detto il grande Derzavin, l’incostanza è il destino dei mortali. E mi offendete senza motivo, amichetto. Non mi sono lasciato lusingare da trenta denari, ma da una somma ben più seria, trasferita nel più accurato dei modi in una banca svizzera, per la vecchiaia, per non morire sotto i ponti. E voi, sciocchino, cosa vi ha portato qui? Contro chi pensavate di latrare? A scoccare una freccia contro un macigno si perde soltanto la freccia. Questa è una fortezza, la piramide di Cheope. È come battere la testa contro il muro.»

Nel frattempo Erast Petrovič era arretrato fino al bordo del lungofiume e fu costretto a fermarsi, sentendo che il basso bordo gli aveva toccato la caviglia. Era proprio quello che Pyžov, a quanto pareva, aveva voluto ottenere.

«Bene, ottimo», canticchiò lui, fermandosi a dieci passi dalla sua vittima. «Altrimenti non era mica facile per me trascinare fino all’acqua un giovinetto tanto ben nutrito. Voi, prezioso mio, non agitatevi. Pyžov sa il fatto suo. Bang, ed ecco fatto. Invece del bel visino… una bella polentina. Se anche vi ripescano, nessuno vi riconoscerà. Mentre l’anima volerà subito agli angeli. Non ha ancora avuto il tempo di peccare, la giovane anima.»

Così dicendo sollevò la sua arma, socchiuse l’occhio sinistro e fece un sorriso goloso. Non aveva fretta di sparare, era chiaro che si godeva il momento. Fandorin lanciò uno sguardo disperato verso la riva deserta, debolmente illuminata dalla luce dell’alba. Non c’era nessuno, non una sola anima umana. Era proprio la fine. Accanto al magazzino notò del movimento, ma non ebbe il tempo di guardare bene; esplose uno sparo fragoroso da far spavento, più assordante del più reboante dei tuoni, così che Erast Petrovič, barcollando all’indietro, con un grido da strappare il cuore, riprecipitò nel fiume da cui era uscito con tanta fatica solo un attimo prima.

DODICESIMO CAPITOLO

in cui il nostro eroe apprende di avere un’aureola intorno alla testa

Nonostante gli avessero sparato, Erast Petrovič non perse tuttavia la coscienza, e poi chissà perché non provava nessun dolore. Senza capirci nulla, prese a martellare con le braccia sull’acqua. Cosa mai succedeva? Era vivo o l’avevano ucciso? Se l’avevano ucciso, perché si sentiva così bagnato?

Sul bordo del lungofiume si affacciò la testa di Zurov. Fandorin non se ne stupì affatto: tanto per cominciare, in quel momento era difficile per lui stupirsi di qualcosa, e in secondo luogo, all’altro mondo (se era lì che si trovava) potevano succedere cose d’ogni genere.

«Erasm! Sei vivo? T’ho mica preso di striscio?» gridò con impeto la testa di Zurov. «Dammi la mano.»

Erast Petrovič estrasse dall’acqua la destra e con un unico potente strappo venne tirato fuori sulla terraferma. La prima cosa che vide non appena in piedi fu una figurina che giaceva rannicchiata, allungando in avanti il braccio che reggeva la pesante pistola. Attraverso la capigliatura scolorita e rada nereggiava nella nuca un buco, a terra si allargava una pozzanghera scura.

«Ti ho ferito?» chiese premuroso Zurov, rigirando e palpando Erast Petrovič che era tutto bagnato. «Non capisco come può essere avvenuto. Una vera e propria révolution dans la balistique! Ma no, non può essere.»

«Zurov, siete voi?!» sibilò Fandorin, comprendendo finalmente di trovarsi ancora in questo mondo, e non nell’altro.

«Non ‘siete’, ma ‘sei’. Abbiamo bevuto alla fratellanza, te lo sei dimenticato?»

«Ma perché?» chiese Erast Petrovič che aveva ricominciato a tremare. «Siete così deciso a finirmi voi stesso? Cosa ve ne viene, il vostro Azazel vi ha promesso in cambio un premio? Sparate, sparate, siate maledetto! Mi siete venuti a noia più del semolino!»

Questo semolino era spuntato non si capiva da dove, forse da qualche ricordo lungamente dimenticato dell’infanzia. Erast Petrovič voleva anche strapparsi la camicia dal petto: eccoti il mio petto, diceva, spara, ma Zurov lo scosse per le spalle senza tante cerimonie.

«Basta con questi deliri, Fandorin. Quale Azazel? Quale semolino? Vieni che ti faccio tornare in te», e senza indugio schioccò due sonori ceffoni allo sfinito Erast Petrovič. «Questo sono io, Ippolit Zurov. Non c’è niente di strano se dopo tutto quello che ti è capitato ti si è fuso il cervello. Appoggiati a me», continuò afferrando il giovane per le spalle. «Adesso ti porto all’albergo. Ho un cavallo attaccato lì, e questo qua» (disse dando un calcio al corpo immobile di Pyžov) «ha lasciato qui vicino la sua vettura. Arriveremo veloci come il vento. Ti scaldi un po’, mandi giù un grog, e mi spieghi che razza di circo mi state combinando.»