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Fandorin respinse con forza il conte: «No, sei tu quello che mi deve delle spiegazioni! Tu da dove» (singhiozzo) «spunti? Perché mi segui? Sei in combutta con loro?»

Zurov si torceva confuso un baffo nero.

«Questo non te lo posso spiegare in due parole.»

«Fa niente, ho tempo. Non» (singhiozzo) «mi muovo!»

«D’accordo, ascolta.»

Ed ecco cosa raccontò Ippolit.

«Credi che te lo abbia dato semplicemente così, l’indirizzo di Amalia? No, fratello mio Fandorin, qui c’è tutta una psicologia. Mi eri piaciuto, perbacco se mi eri piaciuto. C’è in te qualcosa… Non so, un certo stampo, qualcosa. Ho fiuto io per i tipi come te. È come se vedessi un’aureola sulla testa di uomini simili, non so quale leggera irradiazione. Sono speciali, hanno un’aureola, la sorte li protegge, li difende da ogni pericolo. Perché siano protetti, questi uomini nemmeno lo sanno. Non puoi spararti con un uomo così, ti ucciderebbe. Non ci puoi giocare a carte, perderesti, non importa quali trucchi non tiri fuori dalla manica. Io ti ho visto l’aureola, quando mi hai ripulito allo stoss, e poi mi hai costretto a tirare a sorte per il suicidio. Si incontra di rado gente come te. Per esempio nel nostro reggimento, quando marciavamo nei deserti del Turkestan, c’era un luogotenente di nome Ulič. Poteva infilarsi in qualsiasi inferno, e non era nulla per lui, digrignava i denti e basta. Ci crederai, una volta vicino a Chiva ho visto coi miei occhi le guardie del khan che gli sparavano. Nemmeno un graffio! E poi per avere bevuto un po’ di latte fermentato inacidito, basta, seppellimmo Ulič nella sabbia. Perché mai Dio lo proteggeva in battaglia? Mistero! E così, Erasm, anche tu sei di quelli, mi puoi credere. Ti ho voluto bene, ti ho voluto bene in quello stesso istante che tu, senza la minima esitazione, ti sei puntato la pistola alla testa e hai premuto il grilletto. Sennonché il mio amore, fratello mio Fandorin, è materia complessa. Io non posso amare chi sta più in basso di me, mentre chi sta più in alto lo invidio a morte. Io ti ho invidiato. Mi sono ingelosito della tua aureola, della tua inverosimile fortuna. Vedi tu, anche oggi sei uscito asciutto dall’acqua. Ha ha, nel senso, certo che sei uscito bagnato, ma in compenso vivo, e nemmeno un graffio. Eppure a vederti così sembri un ragazzino, un cucciolotto, niente di speciale.»

Fino a quel momento Erast Petrovič aveva ascoltato con vivo interesse ed era perfino arrossito un po’ dal piacere, per un po’ aveva anche smesso di tremare, ma alla parola «cucciolotto» si accigliò e per la rabbia singhiozzò due volte di seguito.

«Ma tu non ti offendere, è un’espressione amichevole», gli disse Zurov battendogli sulla spalla. «Ecco cosa pensai quella volta: questo me lo manda la sorte. A uno così Amalia abbocca subito. Lo guarda un po’ meglio e abbocca. E basta, mi libero di quell’allucinazione satanica una volta per tutte. Mi lascerà una buona volta in pace, la smetterà di tormentarmi, di tenermi alla catena, come un orso ammaestrato al mercato. Ma vada un po’ a esasperare questo ragazzetto, coi suoi tormentoni egizi! Così ti ho dato il filo, sapendo che non ti saresti tirato indietro… Ma mettiti un po’ questo mantello, e manda giù qualcosa dalla mia borraccia. Stai tremando tutto.»

Mentre Fandorin, battendo i denti, inghiottiva il fondo di rum giamaicano che sguazzava nella grande fiasca piatta, Ippolit gli gettò sulle spalle il suo elegante mantello nero con la fodera di raso rosso, dopodiché con grande efficienza fece rotolare coi piedi il cadavere di Pyžov fino al bordo del lungofiume, lo spinse oltre e lo mandò giù in acqua con un calcio. Un tonfo sordo, e dell’empio segretario di provincia restò solo una pozza scura sulla lastra di pietra.

«Dona pace, o Signore, all’anima del tuo servo non so come lo chiamavano», disse pietosamente Zurov.

«Py-Pyžov», disse tuttora in preda al singhiozzo Erast Petrovič, che però, grazie al rum, aveva smesso di battere i denti. «Porfirij Martynovič Pyžov.»

«Non me lo ricorderei comunque», disse Ippolit alzando incurante una spalla. «Ma vada pure al diavolo. Era una porcheria di ometto, si vede da tutto. Puntare la pistola contro un uomo disarmato, pfui. Perché sai, Erasm, ti voleva uccidere. Io, fra l’altro, ti ho salvato la vita, questo l’hai capito?» «L’ho capito benissimo. Raccontami il resto.»«Ecco il resto. Ti ho dato l’indirizzo di Amalia, e subito l’indomani mi è venuta la malinconia, una malinconia, che non te la mandi il Signore. Bevevo, e andavo dalle ragazze, e giocando a carte ho sperperato quasi centomila rubli; ma quella non mi dava tregua. Non potevo dormire, non potevo mangiare. Bere, quello a dire il vero lo potevo fare. Non facevo che immaginare le tue tenerezze con Amalia, e come ridevate di me. Oppure, ancora peggio, non vi ricordavate affatto di me. Mi sono tormentato per dieci giorni, sentivo che potevo restarci tocco di cervello. Jean, il mio servo, te lo ricordi? È all’ospedale. Mi stava sempre addosso con le sue prediche, così gli ho girato il naso e gli ho spaccato due costole. Ora mi vergogno, fratello mio Fandorin. Ero come in preda a una febbre. L’undicesimo giorno crollai. Decisi, è tutto: vi ammazzo tutti e due, te e lei, e poi mi taglio la gola anch’io. Tanto peggio di così non può andare. In che modo ho viaggiato attraverso l’Europa; per Dio, non me lo ricordo. Ho bevuto come un cammello del deserto turkmeno. Quando ho attraversato la Germania, ho sbattuto due prussiani fuori dal vagone. Del resto, non me lo ricordo. Magari me lo sono immaginato. Tornai in me solo a Londra. Per prima cosa all’albergo. Non c’eravate né lei né tu. La pensione era un buco, da quando è nata Amalia in posti del genere non ha mai alloggiato. Il portiere, quella bestia, non sa una parola di francese, e io in inglese so dire solo ‘bottle whisky e ‘move your ass’: me l’ha insegnato un sottotenente di vascello. Vuol dire: prendimi una bottiglia di roba più forte, e muoviti. Io a questo portiere, gambero di un inglese, gli chiedo di miss Olsen, e lui farfuglia qualcosa nella sua lingua, scuote la zucca, e col dito indica qualcosa dietro di lui. Si vede che è partita, ma per dove non si sa. Allora chiedo di te: ‘Fandorin’, dico, ‘Fandorin, move your ass’. A questo punto lui — tu però non offenderti — ha semplicemente strabuzzato gli occhi. Si vede che in inglese il tuo cognome suona osceno. Nel complesso, con quel lacchè non siamo arrivati a nessuna comprensione reciproca. Non c’era nulla da fare, mi sono stabilito in quella topaia, ho tirato a campare. La routine è questa: al mattino dal portinaio, chiedo: ‘Fandorin?’ Lui si inchina, risponde: ‘Morning, sir’. Si vede che non è ancora arrivato, penso. Vado all’altro lato della strada, alla trattoria, quello è il mio punto di osservazione. Una noia, intorno dei musi angosciosi, l’unica cosa buona a venirmi in soccorso è ‘bottle whisky’ e ‘move your ass’. L’oste all’inizio mi fissa, poi si abitua, mi viene incontro come a un parente. Per via di me gli affari gli vanno di gran lunga meglio: la gente si raduna per vedere come inghiotto l’alcol a bicchieri interi. Ma a venirmi vicino hanno paura, mi guardano da lontano. Ho imparato delle parole nuove: ‘gin’ - che sarebbe al ginepro, ‘rhum’ - che è il rum, ‘brandy - che è una schifezza di cognac. Nel complesso, sarei rimasto a questo punto di osservazione fino a farmi venire il delirium tremens, ma il quarto giorno, Allah sia lodato, ti sei annunciato. Sei arrivato così da dandy, con la carrozza laccata, coi baffi. Fra l’altro, hai fatto male a raderteli, ti davano un’aria più ganza. Uh, penso, che galletto, sta facendo la ruota. Adesso invece di miss Olsen ti beccherai un fico secco. Ma con te il gamberetto della pensione l’ha cantata diversa, non come con me, allora ho deciso di nascondermi, di aspettare finché non mi avresti portato sulle sue tracce, e laggiù tutto sarebbe dipeso da quale carta arrivava. Ti sono venuto dietro furtivo per strada, come uno sbirro dell’investigativo. Pfui! Mi stava partendo la testa. Quando ho visto che ti accordavi col vetturino, ho preso le mie misure: ho acchiappato una cavallina alla stalla, le ho fasciato gli zoccoli con gli asciugamani dell’albergo, perché non battessero. I ceceni fanno così, quando si preparano all’attacco. Be’, non che lo facciano con gli asciugamani degli alberghi, ma in questo senso, che ci mettono qualche straccio, hai capito, no?»