«Ma queste sono le Mille e una notte! Un vero prodigio! E dire che ci sono ancora delle persone che parlano male del progresso!»
«Del progresso parleremo strada facendo. Purtroppo ho mandato via la carrozza, così dobbiamo anche cercarci un vetturino. Ma lasciatela perdere, quella vostra borsa da viaggio! Marsch, marsch!»
Tuttavia non ci fu tempo per discutere del progresso — viaggiarono alla volta dell’isola Aptekarskaja nel più totale silenzio. Erast Petrovič tremava dall’eccitazione, e provò alcune volte a indurre il capo alla conversazione, ma invano: Brilling era di pessimo umore — evidentemente, in fin dei conti, si assumeva un grosso rischio, intraprendendo l’operazione di sua iniziativa.
La pallida sera settentrionale si era appena delineata sulla distesa della Neva. Fandorin pensò che la luminosa notte estiva cadeva a proposito, tanto non era il momento di dormire. Ma nemmeno la notte scorsa, passata in treno, aveva chiuso occhio, non aveva fatto che agitarsi all’idea di mancare il pacchetto… Il vetturino incitò la cavalla trotina, guadagnandosi onestamente il rublo promesso, e raggiunsero velocemente destinazione.
L’esthernato di Pietroburgo, un bell’edificio giallo, che prima era appartenuto al corpo ingegneri, aveva dimensioni più piccole di quello di Mosca, ma in compenso era immerso nel verde. Un posticino paradisiaco, con intorno giardini e ricche dacie.
«Eh, cosa ne sarà dei bambini adesso», sospirò Fandorin.
«Non gli succederà assolutamente niente», rispose ostilmente Ivan Franzevič. «Milady nominerà un altro direttore, e la faccenda sarà chiusa lì.»
L’ala dell’esthernato era un imponente palazzotto dell’epoca di Caterina, e dava su una piacevole strada ombreggiata. Erast Petrovič vide un olmo carbonizzato dal colpo di un fulmine che allungava i morti rami verso le finestre illuminate dell’alto primo piano. Nell’edificio tutto pareva tranquillo.
«Benissimo, i gendarmi non sono ancora arrivati», disse il capo. «Non li aspetteremo, per noi la cosa più importante è non spaventare Cunningham. Parlo io, voi state zitto. E tenetevi pronto a qualsiasi imprevisto.»
Erast Petrovič infilò la mano sotto la falda della giacca, palpò il freddo tranquillizzante della Herstal. Il cuore gli si strinse in petto — non per la paura, però, perché con Ivan Franzevič non c’era nulla da temere, ma per l’impazienza. Ancora un attimo e tutto si sarebbe risolto!
Brilling scosse energicamente la campanellina di bronzo, e si udì un tintinnio modulato. Dalla finestra aperta del piano nobile si affacciò una testa rossa.
«Apritemi, Cunningham», disse a voce alta il capo. «Ho una questione urgente con voi!»
«Brilling, siete voi?» si stupì l’inglese. «Che c’è?»
«Un evento straordinario al club. Vi devo avvertire.»
«Un attimo, e scendo. Oggi è il giorno libero del servo», al che la testa scomparve.
«Aha», sussurrò Fandorin. «L’ha mandato via apposta il servo. Probabilmente è lì con le sue carte!»
Brilling tamburellava nervosamente con le nocche delle dita sulla porta, perché Cunningham non si sbrigava.
«Non se la svignerà?» chiese preoccupato Erast Petrovič. «Attraverso un passaggio segreto, eh? Magari vado all’altro lato dell’edificio e mi piazzo dall’altra parte?»
Ma a questo punto dall’interno risuonarono dei passi, e la porta si aprì.
Sulla soglia c’era Cunningham con una lunga veste da camera con gli alamari. I suoi pungenti occhi verdi si fermarono un attimo sul viso di Fandorin, e sulle sue palpebre si percepì un lieve tremito. Lo aveva riconosciuto!
«What’s happening?» chiese cautamente l’inglese.
«Andiamo nello studio», gli rispose Brilling in russo. «È molto importante.»
Cunningham esitò un attimo, poi con un gesto li invitò a seguirlo.
Dopo essere saliti lungo la scala di quercia, il padrone e gli ospiti non invitati si ritrovarono in una stanza sontuosa ma evidentemente non inattiva. Lungo le pareti si allungavano scaffali con libri e molte cartelle d’archivio, alla finestra, accanto a un’immensa scrivania di palissandro, era visibile una colonna di cassetti su ognuno dei quali si notava un’etichetta d’oro.
Tuttavia a Erast Petrovič non interessavano affatto quei cassettini (Cunningham non avrebbe certo tenuto a vista dei documenti segreti) ma le carte sul tavolo che erano state coperte alla rinfusa con l’ultimo numero delle Notizie borsistiche.
Ivan Franzevič, a quanto pareva, era dello stesso avviso — attraversò lo studio e si mise accanto alla scrivania, dando le spalle alla finestra aperta dal basso davanzale. Un venticello vespertino faceva ondeggiare leggermente la tendina di tulle.
Comprendendo perfettamente la manovra del capo, Fandorin restò vicino alla porta. Adesso Cunningham non poteva andare da nessuna parte.
L’inglese aveva tutta l’aria di sospettare che qualcosa non andava.
«Vi comportate in modo ben strano, Brilling», disse in perfetto russo. «E che ci fa qui quest’uomo? L’ho già visto, è un poliziotto.»
Ivan Franzevič guardò Cunningham in tralice, tenendo le mani nelle tasche dell’ampio soprabito.
«Sì, è un poliziotto. E da un momento all’altro qui ci saranno molti altri poliziotti, per questo non ho tempo per spiegazioni.»
La mano destra del capo uscì dalla tasca, Fandorin vide la sua Smith Wesson, ma non ebbe il tempo di meravigliarsi, perché aveva preso anche lui la sua rivoltella; ecco, comincia!
«Don’t… !» disse l’inglese alzando una mano, e in quello stesso istante echeggiò lo sparo.
Cunningham cadde riverso sulla schiena. Erast Petrovič, rimasto di sasso, vide gli occhi aperti spalancati, ancora vivi, e un preciso buco nero in mezzo alla fronte.
«Oddio, capo, per quale motivo…»
Si voltò verso la finestra. Dritto in faccia lo stava puntando una canna nera.
«Lo avete ucciso voi», disse Brilling con voce innaturale. «Siete un investigatore troppo bravo. E per questo, mio giovane amico, sono costretto a uccidervi, cosa che mi rincresce moltissimo.»
QUATTORDICESIMO CAPITOLO
Il povero Erast Petrovič, che non ci capiva più niente, fece alcuni passi in avanti.
«Fermo!» gli abbaiò esasperato il capo. «E non agitate quella pistolettina, non è carica. Almeno aveste guardato il tamburo! Non si può essere così fiduciosi, vi prendesse il diavolo! Credere si può solo a se stessi!»
Brilling si tolse dalla tasca sinistra un’altra Herstal, identica, invece la fumante Smith Wesson la gettò sul pavimento, direttamente ai piedi di Fandorin.
«La mia rivoltella ha tutte le cartucce al completo, cosa di cui adesso vi convincerete», prese a dire febbrilmente Ivan Franzevič, che a ogni parola si arrabbiava sempre di più. «Adesso la metto in mano allo sventurato Cunningham, così risulta che vi siete uccisi fra di voi nel corso di una sparatoria. Un funerale dignitoso e discorsi pieni di partecipazione vi sono garantiti… So bene quanto questo conti per voi. E non guardatemi a quel modo, cucciolo maledetto!»
Fandorin capì con orrore che il suo capo era andato completamente fuori di cervello, e in un tentativo disperato di risvegliarne la ragione improvvisamente intorbidatasi gli gridò: «Ma capo, questo sono io, Fandorin! Ivan Franzevič! Signor consigliere di Stato!»
«Consigliere effettivo di Stato», lo corresse Brilling con un sorriso di serpente. «Siete rimasto indietro sui fatti della vita, Fandorin. Sono stato promosso con decreto dell’autorità suprema il sette di giugno, in seguito al successo dell’operazione per la neutralizzazione dell’organizzazione terroristica ‘Azazel’. Potete quindi chiamarmi ‘vostra eccellenza’.»