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27 giugno 1876, 2 del pomeriggio. Costantinopoli.

Caro Lavrentij, la tua richiesta mi stupisce moltissimo. Il fatto è che Anvar efendi, verso il quale hai manifestato un interesse così pressante, da un certo tempo si trova anche al centro della mia attenzione. Questo soggetto, che fa parte del seguito di Midchat pascià e Abdul Hamid, in base a informazioni in mio possesso è una delle figure centrali di un complotto che sta maturando a palazzo. C’è da aspettarsi presto il rovesciamento dell’attuale sultano e l’insediamento di Abdul Hamid. A quel punto Anvar efendi diventerà inevitabilmente una figura insolitamente influente. È molto intelligente, ha ricevuto un’educazione europea, conosce una quantità innumerevole di lingue orientali e occidentali. Purtroppo non disponiamo di informazioni biografiche dettagliate su questo interessante signore. È noto che non ha più di 35 anni, non si sa se sia nato in Serbia o in Bosnia. È di origini oscure e non ha parenti, fatto questo foriero di molto bene per la Turchia, qualora Anvar diventasse un giorno visir. Immaginate soltanto: un visir privo della solita orda di avidi parenti! Da queste parti semplicemente non è mai successo. Anvar è una specie di eminenza grigia di Midchat pascià. Membro attivo del partito dei Giovani Turchi. Ho soddisfatto la tua curiosità? Adesso soddisfa tu la mia. Che bisogno hai del mio Anvar efendi? Cosa ti è noto di lui? Fammelo sapere subito, potrebbe rivelarsi importante.

Erast Petrovič stava leggendo i dispacci per l’ennesima volta, sottolineò nel primo: «Il periodo iniziale della sua vita, luogo di nascita e l’estrazione sono ignoti». Nel secondo: «Non poteva dire né il suo nome, e neppure la sua nazionalità»; nel terzo: «È di origini oscure e non ha parenti». La cosa si faceva piuttosto terrificante. Veniva fuori che tutti e tre erano spuntati come dal nulla! Di colpo in un certo momento erano affiorati dal non essere e immediatamente avevano preso ad arrampicarsi verso l’alto con un’ostinazione davvero disumana. Cos’erano mai, i membri di una qualche setta segreta? Oh, e se nemmeno si trattasse di uomini, se fossero venuti da un altro mondo? Mettiamo, inviati del pianeta Marte? Oppure qualcosa di peggio: una qualche diavoleria? Fandorin si rannicchiò al ricordo del suo incontro notturno con il «fantasma Amalia». Un altro essere di provenienza ignota, questa Bežezkaja. E per di più l’invocazione satanica, «Azazel». Oh, qui c’è puzza di zolfo…

Bussarono furtivamente alla porta, ed Erast Petrovič, rabbrividendo, infilò la mano dietro la schiena, nella fondina segreta, e palpò l’impugnatura scanalata della Herstal.

Nell’apertura della porta si affacciò la fisionomia servile del conduttore.

«Vostra eccellenza, stiamo per raggiungere una stazione. Non vorreste sgranchirvi le gambe? C’è anche il buffet.»

Per via di questo «eccellenza» Erast Petrovič raddrizzò le spalle e si sbirciò furtivamente allo specchio. Possibile lo prendessero davvero per un generale? Allora, «sgranchire le gambe» non era male, e poi camminando si pensa meglio. Gli si aggirava per il capo una certa idea confusa, e non faceva che scivolare via, non voleva lasciarsi afferrare, ma gli dava speranza — era come se gli dicesse: prendimi, prendimi.

«Magari. Quanto ci fermiamo?»

«Venti minuti. Ma non preoccupatevi, andate pure a spasso.»Il conduttore fece una risatina. «Senza di voi non si parte.»

Erast Petrovič saltò giù dalla scaletta sulla piattaforma inondata di luce della stazione. In alcune finestre dello scompartimento l’illuminazione era già spenta: evidentemente, alcuni passeggeri erano andati a dormire. Fandorin si stirò con gusto e incrociò le mani dietro la schiena, preparandosi al moto destinato a promuovere una più intensa attività intellettuale. Sennonché in quello stesso istante, dal medesimo vagone, era sceso il signore imponente, baffuto, col cilindro, che indirizzò verso il giovane uno sguardo pieno di curiosità e allungò la mano verso la sua graziosa accompagnatrice. Nel vederne l’incantevole, fresco visino, Erast Petrovič si sentì raggelare, mentre la signorina si illuminò tutta ed esclamò con voce squillante: «Papà, è lui, quel signore della polizia! Ti ricordi, te l’avevo raccontato? Ma quello che era venuto per me e la signorina Pful, a farci l’escussione!»

L’ultima parola era stata pronunciata con evidente piacere, e i chiari occhi grigi guardarono Fandorin con vivo interesse. Bisogna riconoscere che gli eventi da capogiro delle ultime settimane avevano piuttosto messo a tacere i ricordi di colei che Erast Petrovič chiamava fra sé esclusivamente «Lizanka», e a volte, in momenti particolarmente sognanti, perfino «tenero angelo». Tuttavia di fronte a questo caro essere il fuocherello, che aveva già scottato a suo tempo il cuore del povero registratore di collegio, riprese a vampeggiare in un attimo facendogli ardere i polmoni di scintille di fuoco.

«Io, a dire il vero, non sono della polizia», borbottò arrossendo Fandorin. «Fandorin, funzionario incaricato speciale presso…»

«So tutto, Je vous le dis tout cru», disse il baffuto con aria cospiratoria, col brillante che gli scintillava sulla cravatta. «Faccenda di Stato, potete non entrare in merito. Entre nous soit dit, io stesso ho avuto a che farci ripetutamente per la natura della mia attività, così che capisco tutto benissimo», disse sollevando il cilindro. «Permettetemi tuttavia di presentarmi. Consigliere segreto effettivo Aleksandr Apollodorovič Evert-Kolokolzev, presidente della Camera di giustizia del governatorato di Mosca. Mia figlia, Liza.»

«Chiamatemi semplicemente ‘Lizzi’, ‘Liza’ ha un suono che non mi piace», gli chiese la signorina, e si dichiarò ingenuamente. «Ho pensato spesso a voi. Siete piaciuto a Emma. Mi ricordo anche come vi chiamate — Erast Petrovič. Bel nome, Erast.»

Fandorin credette di essersi addormentato e di star facendo un sogno meraviglioso. Qui la cosa più importante era non muoversi, altrimenti, Dio non lo volesse, si sarebbe destato.

QUINDICESIMO CAPITOLO

in cui l’importanza di una respirazione corretta viene dimostrata in modo più che convincente

In compagnia di Lizanka (a quel «Lizzi» Erast Petrovič proprio non riusciva ad abituarsi) si stava altrettanto bene chiacchierando che tacendo.

Il vagone ondeggiava sulle giunzioni, di tanto in tanto si udivano i ruggiti della sirena del treno che avanzava a velocità da capogiro attraverso boschi insonnoliti, avvolti nella nebbia che precede l’alba, mentre Lizanka ed Erast Petrovič stavano seduti sulle morbide sedie del primo scompartimento e tacevano. Il più del tempo guardavano alla finestra, ma di tanto in tanto si lanciavano occhiate, e se i loro sguardi si incrociavano senza volere, questo avveniva senza il minimo imbarazzo, anzi, in modo allegro e piacevole. Ormai Fandorin lo faceva apposta di voltarsi dalla finestra con la maggiore accortezza possibile, e ogni volta, quando riusciva a cogliere con il suo lo sguardo di lei, Lizanka scoppiava a ridere.

Non conveniva parlare anche perché in quel modo si sarebbe svegliato il signor barone, il quale stava sonnecchiando tranquillo sul divano. Solo un attimo prima Aleksandr Apollodorovič aveva sostenuto con Erast Petrovič una discussione animata sulla questione balcanica, ma poi, quasi a metà frase, aveva preso di colpo a russare lasciandosi cadere la testa sul petto. Adesso la testa gli dondolava assecondando il battito delle ruote del vagone: ta-dam, ta-dam (là-qua, là-qua); ta-dam, ta-dam (là-qua, là-qua).

Lizanka rideva piano di chissà quali suoi pensieri, e quando Fandorin la guardò con aria interrogativa gli spiegò: «Voi siete così intelligente, sapete ogni cosa. Prima avete spiegato tutto a papà di Midchat pascià e di Abdul Hamid. E io sono così stupida, non potete nemmeno immaginarlo».