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«È impossibile che voi siate stupida», le sussurrò Fandorin con convinzione profonda.

«Io vi racconterei anche una cosa, però mi vergogno… Ma ve la racconterò lo stesso. Non so perché ho l’impressione che non riderete di me. Intendo dire, riderete insieme a me, ma non senza di me. Vero?»

«Verissimo!» esclamò Erast Petrovič, ma il barone mosse le sopracciglia nel sonno, e il giovane tornò a sussurrare. «Io non riderò mai di voi.»

«Guardate che me lo avete promesso. Io dopo quel vostro arrivo avevo immaginato di tutto… E avevo delle fantasie così belle. Però molto tristi e con un finale tragico. Per via di Povera Liza. Liza ed Erast della novella di Karamzin, vi ricordate? A me è sempre piaciuto moltissimo il nome Erast. Immaginavo: giaccio bella e pallida in una tomba, tutta circondata da rose bianche, vuoi perché sono affogata, o perché sono morta di tisi, mentre voi singhiozzate, e anche il papà e la mamma singhiozzano, mentre Emma si soffia il naso. È buffo, vero?»

«Buffo», confermò Fandorin.

«È proprio un miracolo che ci siamo incontrati così alla stazione. Eravamo andati ospiti da ma tante, e saremmo dovuti tornare ieri, ma papà ha dovuto trattenersi per affari al ministero e abbiamo cambiato i biglietti. Non è un miracolo?»

«Quale miracolo?» si stupì Erast Petrovič. «È il destino.»La finestra incorniciava un cielo strano: tutto nero, ma bordato di scarlatto lungo l’orizzonte. Sul tavolo biancheggiavano i poveri dispacci dimenticati.

Il vetturino portò Fandorin attraverso tutta la Mosca mattutina, dal capolinea della linea ferroviaria Nicola Primo fino al quartiere residenziale di Chamovniki. Era una giornata pulita e gioiosa, mentre nelle orecchie di Erast Petrovič non si spegneva ancora il saluto d’addio di Lizanka: «Allora verrete immancabilmente oggi! Promesso?»

Aveva organizzato a meraviglia le ore della sua giornata. Prima di tutto sarebbe andato all’esthernato, da milady. Alla direzione dei gendarmi era meglio passarci dopo, per parlare col direttore, e se gli fosse riuscito di chiarire qualcosa di importante con lady Esther, allora avrebbe spedito un telegramma a Lavrentij Arkadevič. D’altra parte nel corso della notte potevano essere arrivati i dispacci mancanti… Fandorin estrasse dal nuovo portasigari d’argento un lungo sigarillo che accese con un certo impaccio. Non sarebbe stato meglio passare prima dalla gendarmeria? Ma il cavalluccio già trottava per via Ostoženka, e tornare indietro era stupido. Quindi: prima da milady, poi alla direzione, poi a casa, a prendere le sue cose e traslocare in una pensione come si deve, poi si sarebbe cambiato, avrebbe comprato dei fiori e per le sei si sarebbe trovato alla Malaja Nikitskaja, dagli Evert-Kolokolzev. Erast Petrovič sorrise beato e canticchiò: «Lui era un consigliere titola-are, lei la figlia di un genera-ale, lui le dichiarò timidamente il suo amo-ore, lei lo ca-a-acciò con orro-ore».

Ed ecco il noto edificio con il cancello di ghisa, e il servo con l’uniforme azzurra vicino alla garitta dipinta a strisce come da regolamento di polizia.

«Dove posso trovare lady Esther?» gridò Fandorin, chinandosi dal suo sedile. «Nell’esthernato o nelle sue stanze?»

«A quest’ora di solito sta nelle sue stanze», riferì diligentemente il custode, e la carrozza rimbombò oltre, nel vicolo silenzioso.

Giunto alla palazzina a due piani della direzione, Fandorin ordinò al vetturino di aspettarlo, preavvertendolo che l’attesa avrebbe potuto rivelarsi lunga.

Il solito portinaio arrogante, che milady chiamava Timofej, oziava vicino alla porta, solo che non si scaldava al sole, come la volta prima, ma si era messo all’ombra, perché il sole di luglio arrostiva di un calore incomparabilmente più forte di quello di maggio.

Adesso Timofej si comportò in modo del tutto diverso: manifestando un talento psicologico fuori del comune, si tolse il berretto, fece un inchino e chiese con voce melliflua chi doveva riferire. Qualcosa, evidentemente, era mutato nell’aspetto esteriore di Erast Petrovič nel mese appena trascorso, così che non suscitava più nella razza dei portinai l’istinto tribale di «menare e scacciare».

«Non c’è bisogno di annunciarmi, vado da solo.»

Timofej si piegò ad arco e aprì la porta senza obiezioni, fece poi passare il visitatore in un ingresso rivestito di damasco, e da qui, per un corridoio molto illuminato dal sole, Erast Petrovič arrivò fino alla nota porta bianca e oro. Questa gli si aprì incontro, e un certo soggetto lungo e smilzo con la stessa uniforme azzurra di Timofej e le stesse calze bianche guardò con aria interrogativa il nuovo venuto.

«Fandorin, funzionario della Terza sezione, per una questione urgente», disse severamente Erast Petrovič, tuttavia la fisionomia cavallina del servo si mantenne impenetrabile, e fu necessario passare all’inglese: «State polke, impector Fandorin, on urgent official business».

Anche questa volta, nemmeno un muscolo tremò su quel viso di pietra, tuttavia il senso di quanto aveva detto fu capito; il servo abbassò impettito la testa e scomparve dietro la porta, richiudendosi dietro le ante.

Poco dopo vennero riaperte. Sulla soglia c’era lady Esther in persona. Nel vedere quella sua vecchia conoscenza, sorrise contenta: «O, siete voi, ragazzo mio. Ma Andrew aveva detto un certo signore importante della polizia segreta. Venite, venite. Come state? Come mai avete un’aria così stanca?»

«Sono appena sceso dal treno di Pietroburgo, milady», prese a spiegare Fandorin entrando nello studio. «Dalla stazione sono venuto direttamente da voi, per una questione molto urgente.»

«Davvero?» annuì addolorata la baronessa, mettendosi a sedere su una poltrona e invitando con un gesto il suo ospite a sederlesi davanti. «Voi, certo, volete parlare con me del caro Gerald Cunningham. È un incubo, non ci capisco nulla… Andrew, prendi il cappello del signor poliziotto… È al mio servizio da tempo, è appena arrivato dall’Inghilterra. Ottimo Andrew, mi mancava. Va’ pure, Andrew, amico mio, per il momento non ho più bisogno di te.»

L’ossuto Andrew, che a Erast Petrovič non pareva affatto ottimo, si allontanò con un inchino, e Fandorin prese ad agitarsi nella dura poltrona, cercando di trovare una posizione più comoda — la conversazione aveva l’aria di continuare per un po’.

«Milady, sono molto addolorato di quanto è successo, tuttavia il signor Cunningham, il vostro aiutante più vicino nel corso di molti anni, risulta coinvolto in una vicenda criminale delle più serie.»

«E adesso chiuderete i miei esthernati russi?» chiese piano milady. «Dio, cosa ne sarà dei bambini… Avevano appena cominciato ad abituarsi a una vita normale. E quanti talenti fra di loro! Rivolgerò una petizione all’autorità suprema… magari mi permetteranno di portare i miei allievi all’estero.»

«Vi preoccupate senza motivo», le disse con gentilezza Erast Petrovič. «Ai vostri esthernati non succederà nulla. Alla fin fine, sarebbe un delitto. Volevo solo farvi alcune domande su Cunningham.»

«Ma certo! Tutto quel che volete. Povero Gerald… Sapete, era di una famiglia molto buona, nipote di un baronetto, ma i suoi genitori erano affogati sulla via del ritorno dall’India, e il ragazzino era rimasto orfano a undici anni. Da noi in Inghilterra le leggi sull’eredità sono molto dure, va tutto al primogenito, sia il titolo sia il patrimonio, mentre i più giovani spesso restano senza il becco di un quattrino. Gerald era il figlio minore di un figlio minore, senza mezzi, senza casa, i parenti non si interessavano a lui… Stavo scrivendo appunto le condoglianze a suo zio, un gentleman del tutto incapace, che non aveva il benché minimo interesse per Gerald. Che ci volete fare, noi inglesi diamo un grande significato alle formalità.»Lady Esther mostrò un foglio di carta vergato in una calligrafia grande, démodé, con tanti uncini e complicati tratti di penna. «Alla fine ho preso il bambino con me. Gerald manifestò straordinarie capacità matematiche, e io pensavo che sarebbe diventato un professore, sennonché la vivacità dell’intelletto e l’amor proprio non sono di grande aiuto nella carriera scientifica. Ben presto notai che il ragazzo godeva di autorità fra gli altri bambini, che gli piaceva essere il capo. Aveva innato il talento del leader: una rara forza di volontà, senso della disciplina, la capacità di separare senza fallo in ogni uomo i lati forti da quelli deboli. All’esthernato di Manchester lo elessero capoclasse. Immaginavo che Gerald avrebbe voluto entrare nel servizio di Stato oppure occuparsi di politica; sarebbe potuto diventare un ottimo funzionario coloniale, e col tempo, magari, perfino un governatore generale. Quale non fu il mio stupore, quando espresse il desiderio di restare con me e occuparsi dell’insegnamento!»