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A quel punto Fandorin comprese, non senza un crampo allo stomaco, che gli restava una sola via d’uscita: prendere il commesso Kukin per la collottola, trascinarlo al comando di polizia di via Mochovaja, all’obitorio, dove, sotto ghiaccio, giaceva tuttora il cadavere del suicida, e richiederne l’identificazione. Erast Petrovič si raffigurò il cranio disfatto con la crosta di sangue e cervello secco, e per una associazione di idee del tutto naturale si ricordò della Krupnova, la moglie di un commerciante che era stata assassinata e continuava a visitarlo nei suoi incubi. No, non aveva proprio nessuna voglia di andare nella «ghiacciaia». Ma fra lo studente del ponte Malyj Jayzskij e il suicida dei giardini di Sant’Alessandro un legame c’era, e andava chiarito al più presto. Chi avrebbe potuto dirgli se Kokorin era brufoloso e gobbo, se portava il pince-nez?

Tanto per cominciare la signora Spizyna, che però, con tutta probabilità, doveva avere già raggiunto la regione di Kaluga. Poi il cameriere del defunto, come diavolo si chiamava? Non importa, l’investigatore lo aveva comunque tirato fuori dall’appartamento, e adesso vallo a cercare… Restavano i testimoni dei giardini di Sant’Alessandro, e prima di tutto quelle due signore con cui Kokorin aveva parlato negli ultimi istanti della sua vita, loro molto probabilmente lo avevano esaminato in ogni particolare. Ecco cosa aveva annotato nel bloc-notes: «Eliz. Aleksandrna von Evert-Kolokolzev, anni 17, figlia di consigliere titolare, signorina Emma Gottlibovna Pful, anni 48. Via Malaja Nikitskaja, casa privata».

Senza spendere per il vetturino non c’era proprio modo di farcela.

* * *

Fu una lunga giornata. Uno splendente sole di maggio, per nulla stanco di illuminare la città dalle cupole d’oro, stava calando svogliatamente sull’orizzonte dei tetti, quando Erast Petrovič, che aveva pranzato con un paio di monetine da dieci copechi, scese dalla vettura davanti a un’elegante magione dalle colonne doriche, la facciata con gli stucchi e il portico in marmo. Vedendo che il suo passeggero si era fermato in preda all’incertezza, il vetturino gli disse: «È proprio questa la casa del generale, non dubitatene. Mica è il primo anno che portiamo la carrozza a Mosca».

E se ora non mi fanno entrare? si chiese con un sussulto Erast Petrovič spaventato all’idea che lo potessero mortificare. Impugnò il lucido martelletto di bronzo e batté due volte, Il massiccio portone dai due bronzei musi leonini si aprì subito, e mostrò un portiere dalla ricca livrea coi galloni d’oro.

«Venite per il signor barone? Dall’ufficio?» gli chiese sbrigativamente. «Devo riferire o solo trasmettergli delle carte? Ma entrate pure.»

Nello spazioso ingresso, illuminato in abbondanza sia dal lampadario sia dalle bocchette a gas, il visitatore s’intimidì del tutto.

«Veramente cercavo Elizaveta Aleksandrovna», spiegò. «Erast Petrovič Fandorin, polizia investigativa. Per necessità urgente.»

«Dell’investigativa?» chiese con cipiglio il guardiano. «Sarà mica per il fatto di ieri? Non ci pensate nemmeno. Sappiate che la signorina ha singhiozzato manca poco tutto il giorno e questa notte ha dormito malissimo. Non vi lascerò entrare e non ho nessuna intenzione di annunciarvi.

Sua eccellenza ha già minacciato quelli della stazione di polizia di staccargli la testa, dopo che ieri hanno tormentato Elisaveta Aleksandrovna coi loro interrogatori. Tornatevene in strada, in strada.»E quel mascalzone prese pure a spingerlo col suo pancione verso l’uscita.

«E la signorina Pful?» gridò disperato Erast Petrovič. «Emma Gottlibovna, anni 48? Mi basterebbe scambiare due parole almeno con lei. È una faccenda di Stato!»

Il guardaportone schioccò con aria importante le labbra.

«Da lei la posso anche lasciare andare, sia pure. Da quella parte, andate lì sotto la scala. Lungo il corridoio la terza porta a destra. La signora governante abita lì.»

Bussò e gli aprì una signora alta e ossuta che appuntò sul visitatore tondi occhi castani.

«Dalla polizia, Fandorin. Siete la signora Pful?» chiese con una certa insicurezza Erast Petrovič, e a ogni buon conto lo ripetè in tedesco. «Polizeiamt. Sind sie Fräulein Pful? Guten Abend!»

«Buona sera», gli rispose severamente l’ossuta signora. «Sì, sono Emma Pful. Entrate. Sedetevi laggiù su quella sedia.»

Fandorin si mise a sedere dove gli era stato indicato; su una sedia viennese dallo schienale ricurvo, accanto alla scrivania su cui stavano appoggiati con grande precisione alcuni manuali e intere pile di carta da lettere. Era una bella stanza, chiara ma assai noiosa, priva com’era di vita. Solo sul davanzale c’erano tre vasi di rigogliosi gerani, l’unica macchia luminosa nell’intera stanza.

«Siete fenuto per quello stupido giovane che si è sparato ieri?» chiese la signorina Pful. «Ieri ho risposto a tutte le domante del signor poliziotto, ma se volete farmene delle altre, chiedete pure. Mi rendo ben conto che il laforo tella polizia è importantissimo. Mio zio Günter prestava servizio nella polizia sassone col grado di Oberwachtmeister.»

«Io sono registratore di collegio», spiegò Erast Petrovič, che non desiderava venire preso anche lui per un caporale, «ho il quattordicesimo rango.»

«Certo, conosco i ranghi», annuì la tedesca, indicando col dito il nastrino della divisa. «Allora, signor registratore di collegio, vi ascolto.»

In quel momento la porta si aprì senza che nessuno avesse bussato, e nella stanza volò una signorina bionda dall’incantevole visino acceso.

«Fräulein Pful! Morgen fahren wir nach Kuncevo! Parola d’onore. Papà ha dato il permesso», comunicò lei dalla soglia, ma, alla vista dell’estraneo, si arrestò e tacque confusa, senza che questo impedisse ai suoi occhi grigi di guardare intentamente e con la più viva curiosità il giovane funzionario.

«Le paronesse educate non corrono, camminano», l’ammonì la governante con severità simulata. «Soprattutto se hanno cià diciassette anni belli e compiuti. Se invece di correre camminaste, avreste avuto il tempo di federe che c’era uno sconosciuto e di salutarlo come si defe.»

«Buongiorno, signore», bisbigliò la miracolosa visione.

Fandorin si alzò in piedi e fece un inchino, sentendosi in grandissimo imbarazzo. La ragazza gli piaceva terribilmente, e il povero giovane si spaventò al pensiero che all’improvviso avrebbe potuto innamorarsene a prima vista, cosa assolutamente da non farsi. Perfino ai vecchi prosperosi tempi del suo papà una simile principessa non sarebbe stata minimamente alla sua portata, e men che mai adesso.

«Buongiorno», disse molto seccamente, aggrottando severamente le sopracciglia e aggiungendo mentalmente: «Pensavate di mettermi in una situazione penosa? Lui era un consigliere titolare, lei qualcosa come la figlia di un ge nerale! No davvero, signorina, non contateci! Ho ancora un bel po’ di carriera da fare, io, prima di raggiungere il rango di vostro padre!»