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Quando alzò di nuovo la testa, Armand lo sosteneva. E con i dolenti occhi umani Maharet l’implorava di dirle ciò che aveva appena visto. Lentamente la stanza prese vita intorno a lui, i mobili e le figure immortali che appartenevano a quel luogo e non appartenevano a nulla. Chiuse gli occhi e li riaprì.

«Ha raggiunto la nostra longitudine», disse. «Tuttavia è a molti chilometri più a est. Là il sole si è appena levato in tutto il suo fulgore.» Aveva sentito quel caldo letale! Ma lei era sprofondata sottoterra. Aveva sentito anche questo.

«Ma è molto più a sud», disse Jesse. Appariva fragile nell’oscurità traslucida e si stringeva le braccia con le dita lunghe e sottili.

«Non è tanto lontana», disse Armand. «E si muoveva molto velocemente.»

«Ma in quale direzione si muove?» chiese Maharet. «Viene verso di noi?»

Non attese la risposta. E sembrava che non potessero dargliela. Alzò la mano per coprirsi gli occhi come se ora la sofferenza fosse intollerabile; quindi attirò a sé Jesse e la baciò, e augurò il buon riposo agli altri.

Marius chiuse gli occhi; si sforzò di rivedere la figura che aveva visto poco prima. L’indumento, che cos’era? Ruvido, gettato addosso come un poncho da contadino, con un’apertura lacera per la testa. Era annodato alla cintura, sì, l’aveva sentito. Si sforzò di vedere di più, ma era impossibile. Ciò che aveva percepito era il potere, un potere illimitato e uno slancio inarrestabile, e quasi niente altro.

Quando riaprì gli occhi, il mattino sbocciava nella stanza intorno a lui. Armand gli era vicino e continuava a tenerlo abbracciato; tuttavia era solo e non sembrava turbato. I suoi occhi si mossero solo un poco mentre guardava la foresta, che ora sembrava premere contro la casa a ogni finestra, come se si fosse insinuata fino ai margini del portico.

Marius baciò la fronte di Armand. Quindi fece esattamente ciò che stava facendo Armand.

Guardò la stanza che si andava rischiarando; guardò la luce che inondava i vetri della finestra; guardò i colori bellissimi ravvivarsi nella rete immensa della gigantesca trapunta.

5. LESTAT: QUESTO È IL MIO CORPO QUESTO È IL MIO SANGUE

Mi svegliai e tutt’intorno c’era silenzio, l’aria era pulita e calda, e aveva l’odore del mare.

Ero completamente confuso, e non sapevo che ora fosse. Lo stordimento mi diceva che non avevo dormito molto e che non ero in un luogo chiuso e protetto.

Avevamo inseguito la notte tutt’intorno al mondo, forse, o semplicemente ci eravamo mossi a caso, dato che probabilmente Akasha non aveva bisogno di dormire.

Ma io ne avevo bisogno, era ovvio. Ma ero troppo curioso per non voler star sveglio. E francamente ero troppo infelice. E avevo sognato sangue umano.

Mi trovavo in una spaziosa camera da letto, con due terrazze a ovest e a nord. Sentivo l’odore e il rumore del mare; tuttavia l’aria era fragrante e piuttosto calma. A poco a poco, mi guardai intorno.

L’arredamento era antico e lussuoso, probabilmente italiano, delicato e tuttavia ornatissimo, e si abbinava ai lussi moderni dovunque girassi lo sguardo, il letto era dorato, a colonne, con tendaggi di velo, carico di cuscini di piuma e drappi di seta. Il vecchio pavimento era coperto da un folto tappeto candido.

C’era un tavolo da toeletta pieno di barattoli luccicanti e di oggetti d’argento, e un curioso, antiquato telefono bianco. Poltrone di velluto; un televisore gigantesco e scaffali con l’attrezzatura stereo, e dovunque tavolini con giornali, portacenere, bottiglie di vino.

Qualcuno era vissuto lì fino a un’ora prima; ma adesso erano tutti morti. C’erano molti morti sull’isola. Mentre giacevo immobile per un momento a osservare la bellezza che mi circondava, rividi nella mente il villaggio dov’eravamo stati prima. Rividi il sudiciume, i tetti di lamiera, il fango. E adesso ero in quel luogo incantevole, o almeno pareva tale.

Anche lì c’era la morte. L’avevamo portata noi.

Scesi dal letto, uscii sulla terrazza e guardai dalla balaustra la spiaggia bianca. Non si vedevano terre fino all’orizzonte, ma solo il mare. La trina di spuma delle onde scintillava sotto la luna. Ero nel vecchio palazzo, costruito con ogni probabilità quattro secoli prima, ornato di urne e cherubini e coperto d’intonaco macchiato: un luogo decisamente bello. Le luci elettriche brillavano attraverso le imposte verdi di altre stanze. Su una terrazza più bassa c’era una piccola piscina.

E più avanti, dove la spiaggia s’incurvava sulla sinistra, vidi un altro edifìcio elegante annidato sulle rupi. Anche lì era morta molta gente. Era un’isola greca e quello era il Mediterraneo.

Sentii le grida che venivano dall’entroterra, oltre la cresta della collina. Uomini che morivano. Mi appoggiai allo stipite e cercai di impedire al mio cuore di battere all’impazzata.

Un ricordo improvviso del massacro nel tempio di Azim mi colpì… ebbi la visione di me stesso che mi aggiravo in quella mandria umana e usavo la lama invisibile per trapassare la carne. Sete. O forse era soltanto bramosia? Rivedevo quelle membra straziate, i corpi contorti nell’ultima lotta, le facce sporche di sangue.

Non è opera mia, non avrei potuto… Ma ero stato io.

Ora sentivo l’odore dei fuochi, come le pire nel cortile di Azim dove venivano arsi i cadaveri. L’odore mi nauseava. Mi girai di nuovo verso il mare e aspirai a pieni polmoni. Se l’avessi permesso, mi sarebbero giunte le voci, le voci da quella e da altre isole, e dalla vicina terraferma. Sentivo il suono che attendeva in agguato. Dovevo respingerlo.

Poi sentii un rumore più immediato. C’erano numerose donne, nella vecchia casa, e si avvicinavano alla camera da letto. Mi voltai e vidi i battenti della porta che si aprivano. Le donne entrarono, vestite di camicette e gonne e fazzoletti, con grande semplicità.

Era una folla d’ogni età, che includeva giovani belle, grasse matrone e alcune creature fragili dalla pelle grinzosa e dai capelli nivei. Portavano vasi di fiori e li sistemavano dappertutto. Poi una di loro, snella e dal bel collo lungo, si fece avanti con grazia naturale e cominciò ad accendere le numerose lampade.

L’odore del loro sangue. Come poteva essere tanto forte e seducente, se non avevo sete?

All’improvviso vennero tutte insieme nel centro della stanza e mi fissarono come se fossero in preda a una trance. Io ero sulla terrazza e mi limitavo a guardarle… poi compresi che spettacolo offrivo ai loro occhi. Il mio costume strappato, gli stracci da vampiro… giacca nera, camicia bianca, mantello… tutto macchiato di sangue.

E la mia carnagione… quella era cambiata in modo notevole. Ero più pallido e più spaventoso, naturalmente. E i miei occhi dovevano essere più fulgidi; o forse mi lasciavo ingannare dalle loro reazioni ingenue. Quando avevano già visto uno di noi?

Comunque sembrava tutto un sogno, le donne taciturne dagli occhi neri e i volti scavati (persino quelle grasse avevano facce scarne) che s’erano radunate a fissarmi. Poi, a una a una, caddero in ginocchio. Sì, in ginocchio. Sospirai. Avevano l’espressione folle di chi si trova di fronte a un evento straordinario o hanno una visione, e l’ironia della cosa stava nel fatto che erano loro a sembrare visioni a me.

Con riluttanza lessi i loro pensieri.

Avevano visto la Madre Benedetta. Era così che la chiamavano. La Madonna, la Vergine. Era venuta ai loro villaggi e aveva comandato di uccidere i figli e i mariti; erano stati sterminati persino i neonati. E avevano obbedito, o erano semplicemente state spettatrici del massacro, e adesso erano dominate da un’ondata di fede e di gioia. Avevano assistito ai miracoli e la Madre Benedetta aveva parlato. Ed era l’antica Madre che aveva dimorato sempre nelle grotte dell’isola, prima di Cristo.