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In suo nome avevano abbattuto le colonne dei templi in rovina, i templi che i turisti venivano a vedere, avevano bruciato l’unica chiesa dell’isola, ne avevano sfondato le finestre con pietre e bastoni, incendiato gli antichi affreschi. Le colonne di marmo, ridotte a pezzi, erano state gettate in mare.

In quanto a me, cos’ero per loro? Non soltanto un dio, non soltanto l’eletto della Madre Benedetta. No, qualcosa d’altro. Ero sconcertato e prigioniero dei loro occhi, disgustato dalle loro convinzioni e tuttavia affascinato e spaventato.

Non avevo paura di loro, ovviamente, ma di tutto ciò che stava accadendo, della sensazione deliziosa di quelle mortali che mi guardavano come tutti mi avevano guardato sul palcoscenico. Erano mortali che mi guardavano e sentivano il mio potere dopo tutti gli anni passati a nascondermi: mortali venute per adorare. Erano mortali come tutte le povere creature sparse sul sentiero della montagna. Ma quelli erano stati adoratori di Azim, no? Erano saliti lassù per morire.

Un incubo. Dovevo interromperlo: dovevo impedire a me stesso di accettarlo. Ecco, potrei incominciare a credere di essere veramente… Ma io so che cosa sono, no? E quelle povere donne ignoranti, per le quali i televisori e i telefoni sono miracoli, e lo stesso cambiamento è una forma di miracolo… E domani si sveglieranno e vedranno che cos’hanno fatto!

Ma un senso di pace discese su di noi… sulle donne e su di me. Il profumo dei fiori, l’incantesimo. In silenzio le donne ricevevano mentalmente le istruzioni.

Vi fu un movimento: due si alzarono ed entrarono nel bagno adiacente alla camera, uno di quei grandi bagni marmorei che piacciono tanto ai ricchi, italiani e greci. L’acqua calda prese a scorrere e il vapore uscì dalla porta aperta.

Altre donne erano andate a frugare negli armadi per prendere degli indumenti puliti. Era stato ricco, il proprietario di quel palazzo, il poveraccio che aveva lasciato una sigaretta nel portacenere e le ditate un po’ unte sul telefono bianco.

Due donne vennero verso di me. Volevano condurmi nel bagno. Non mi mossi. Sentii che mi toccavano… calde dita umane che mi toccavano; sentii lo choc e l’eccitazione che provavano al contatto sconcertante della mia pelle. Fu un brivido potente e delizioso. I loro occhi scuri e liquidi erano bellissimi. Mi tiravano con le mani calde: volevano che le seguissi.

Lasciai che mi guidassero. Marmi bianchi, rubinetti d’oro, uno splendore degno dell’antica Roma, con le bottiglie di saponi ed essenze sui ripiani. E l’acqua calda nella vasca, con i rubinetti che la riempivano di bollicine. Era molto invitante… o lo sarebbe stato in un altro momento.

Mi spogliarono. Una sensazione affascinante. Nessuno l’aveva mai fatto. Stavo nel flusso del vapore e guardavo quelle piccole mani scure, e sentivo i peli rizzarsi in tutto il corpo, vedevo l’adorazione negli occhi delle donne.

Attraverso il vapore guardai lo specchio, la parete di specchi, e mi vidi per la prima volta dall’inizio di quell’odissea sinistra. Per un momento il colpo fu insostenibile. Non posso essere io.

Ero molto più pallido di quanto avessi immaginato. Scostai gentilmente le donne e mi avvicinai allo specchio. La mia pelle aveva uno splendore madreperlaceo, gli occhi erano ancora più luminosi: raccoglievano tutti i colori dello spettro e li mescolavano con una luce gelida. Tuttavia non somigliavo a Marius. Non somigliavo ad Akasha. Il mio viso era ancora segnato dalle rughe!

In altre parole, ero stato sbiancato dal sangue di Akasha, ma non ero ancora levigato. Avevo conservato l’espressione umana. E la cosa più strana era che il contrasto rendeva più visibili le rughe. Persino le minuscole grinze sulle dita erano più nitide che mai.

Ma che consolazione era, quand’ero più che mai diverso da un essere umano? In un certo senso era peggio del primo momento di duecento anni prima quando, un’ora dopo la mia morte, m’ero visto nello specchio e avevo cercato di trovare la mia umanità in ciò che vedevo. Adesso avevo la stessa paura.

Studiai la mia immagine… il petto simile a marmo, bianchissimo. E l’organo, l’organo di cui non abbiamo bisogno, eretto come se fosse pronto per ciò che non avrebbe mai voluto o saputo fare, anch’esso marmoreo.

Stordito, guardai le donne avvicinarsi: le belle gole, i seni, le membra olivastre e bagnate. Le guardai mentre mi toccavano. Per loro ero bello.

L’odore del loro sangue era più forte in mezzo al vapore. Tuttavia non avevo sete. Akasha mi aveva saziato, ma il sangue mi tormentava un po’. Mi tormentava moltissimo.

Volevo il loro sangue… e non aveva nulla a che vedere con la sete. Lo volevo come un uomo può desiderare un vino d’annata anche se ha bevuto acqua: ma il desiderio era venti, trenta, cento volte più intenso. Era così potente che immaginavo di prenderle tutte, di azzannare una dopo l’altra le gole delicate e di abbandonare i loro corpi sul pavimento.

No, non deve succedere, pensai. E la pericolosità del desiderio mi ispirò la voglia di piangere. Che cosa mi è accaduto? Ma lo sapevo, naturalmente. Sapevo d’essere ormai così forte che neppure venti uomini sarebbero riusciti a bloccarmi. E che cosa avrei potuto fare…? Se avessi voluto, avrei potuto salire attraverso il soffitto e andarmene. Potevo fare cose che non avevo mai sognato. Probabilmente avevo il dono del fuoco; potevo bruciare le cose come poteva farlo Akasha e come Marius diceva di poter fare. Era solo questione di forza, nient’altro. E livelli vertiginosi di coscienza, di accettazione…

Le donne mi baciavano. Mi baciavano le spalle. Era una sensazione deliziosa, la pressione delicata delle labbra sulla pelle. Non potevo fare a meno di sorridere; e le abbracciavo e le baciavo, strusciavo il viso contro i colli caldi, sentivo contro il petto la pressione dei seni. Ero circondato da quelle creature, da quella carne umana succulenta.

Entrai nella vasca e lasciai che mi lavassero. L’acqua calda mi spruzzava deliziosamente e portava via la polvere, che in realtà non aderisce mai alla nostra pelle. Guardai il soffitto e lasciai che mi passassero l’acqua calda sui capelli.

Sì, era straordinariamente piacevole. Eppure non ero mai stato così solo. Sprofondavo in quelle sensazioni ipnotiche, andavo alla deriva perché in realtà non potevo fare niente altro.

Quando le donne ebbero finito, scelsi i profumi che volevo e dissi di portar via gli altri. Parlavo in francese ma sembrava che capissero. Poi mi vestirono con gli indumenti che avevo scelto tra quelli che mi avevano presentato. Il padrone di casa aveva avuto una predilezione per le camicie confezionate a mano, appena un po’ troppo grandi per me; e aveva apprezzato anche le scarpe, anche queste fatte a mano, che mi andavano piuttosto bene.

Scelsi un vestito di seta grigia, d’ottima tessitura e dal taglio moderno. E gioielli d’argento. L’orologio d’argento dell’uomo, e i gemelli con i minuscoli diamanti, e persino una spilla con diamante da fissare al bavero della giacca. Ma quegli indumenti mi davano una sensazione strana; era come se sentissi la superficie della mia pelle e non la sentissi. Poi venne il déjà vu. Duecento anni prima. I soliti interrogativi. Perché sta succedendo tutto questo? Come posso assumere il controllo della situazione?

Mi chiesi, per un momento, se era possibile non curarsi dell’accaduto, tenersi in posizione distaccata e vedere quelle donne come esseri alieni, come le cose di cui mi nutrivo? Ero stato strappato crudelmente al loro mondo! Dov’era la vecchia amarezza, la vecchia giustificazione per la crudeltà infinita? Perché non s’era sempre concentrata su quelle piccole cose? Anche se una vita non è piccola… oh, no, mai, nessuna vita! Quello era l’importante. Perché io, che potevo uccidere con tanto slancio, rifuggivo dalla prospettiva di vedere distrutte le loro tradizioni preziose?