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Maharet si tese.

Jesse la vide raddrizzare le spalle e muovere la mano sul piano di legno, stringerla e riaprirla mentre le unghie dorate brillavano nella luce del fuoco.

«Non voglio che abbiate paura», disse con voce spenta. «Ma sappiate che la Madre ha attraversato il gran mare orientale. Lei e Lestat sono più vicini…»

Jesse sentì la corrente d’allarme scuotere tutti i presenti. Maharet rimase rigida, come se ascoltasse o se vedesse qualcosa; le pupille dei suoi occhi si muovevano leggermente.

«Lestat chiama», disse, «ma è troppo debole perché io possa udire le parole, vedere le immagini. Tuttavia è illeso; questo lo so, e so di aver poco tempo, per finire la mia storia…»

7. LESTAT: IL REGNO DEI CIELI

I Caraibi. Haiti. Il giardino di Dio.

Ero in cima alla collina, al chiaro di luna, e cercavo di non vedere quel paradiso. Cercavo di immaginare coloro che amavo. Erano ancora riuniti nella foresta fiabesca di alberi mostruosi, dove avevo visto camminare mia madre? Se avessi almeno potuto vedere le loro facce e udire le loro voci! Marius, non fare il padre sdegnato. Aiutami! Aiutaci tutti! Io non mi rassegno, ma sto perdendo, sto perdendo l’anima e la mente. Il mio cuore è già perduto. Appartiene a lei.

Ma erano irraggiungibili. La distanza immane ci isolava, e io non avevo il potere di superarla.

Guardavo le colline verdeggianti costellate di piccole fattorie, un mondo da libro illustrato con i fiori che sbocciavano a profusione, e le piante alte come alberi. E le nubi sempre mutevoli, portate come enormi velieri dal soffio dei venti. Cosa avevano pensato gli europei quando avevano guardato quella terra feconda circondata dal mare scintillante? Che quello era il Giardino di Dio.

E pensare che vi avevano portato la morte; gli indigeni erano spariti in pochi anni, distrutti dalla schiavitù, dalle malattie e dalla crudeltà. Non restava neppure un discendente degli esseri pacifici che avevano respirato quell’aria balsamica e colto i frutti che maturavano tutto l’anno, e credevano che i visitatori fossero dèi e intendessero ricambiare la loro gentilezza.

Ora, nelle vie di Port-au-Prince, c’erano tumulti e morte, e non erano opera nostra. Era solo la storia immutabile di quel luogo sanguinoso dove la violenza fioriva da quattrocento anni, anche se la vista delle colline che sorgevano nella nebbia poteva spezzare il cuore.

Ma avevamo compiuto la nostra opera; lei perché la compiva, io perché non facevo nulla per impedirlo… nelle piccole città sparse lungo il percorso tortuoso che portava a quella vetta boscosa. Cittadine di cassette dai colori pastello, banani selvatici e gente così povera, così affamata. Persino adesso le donne cantavano gli inni e, alla luce delle candele e della chiesa incendiata, seppellivano i morti.

Eravamo soli. Molto al di là del punto dove finiva la strada, dove la foresta nascondeva le rovine d’una vecchia casa che un tempo aveva dominato la valle come una cittadella. Erano trascorsi secoli da quando i piantatori se n’erano andati, da quando avevano danzato e cantato e bevuto vino nelle stanze ora in rovina, mentre gli schiavi dormivano.

Sui muri di mattoni si arrampicavano le buganville, fluorescenti nel chiaro di luna. Tra le pietre era cresciuto un grande albero carico di fiori, e spingeva indietro con i rami nodosi le ultime travi che un tempo sostenevano il tetto.

Ah, restare lì per sempre, con lei. E dimenticare il resto. Niente morte, niente uccisioni.

Akasha sospirò e disse: «Questo è il Regno dei Cieli».

Nel minuscolo villaggio più in basso le donne scalze avevano inseguito gli uomini brandendo i bastoni. E il sacerdote del vodu aveva urlato antiche maledizioni quando l’avevano raggiunto nel cimitero. Avevo abbandonato la scena della carneficina; ero salito da solo sulla montagna. Infuriato, in fuga, incapace di continuare ad assistere a quello spettacolo.

E lei mi aveva seguito, mi aveva trovato fra quelle rovine, aggrappato a qualcosa che potevo capire. Il vecchio cancello di ferro, la campana arrugginita; le colonne di mattoni avvolte dai rampicanti; cose create da mani umane e sopravvissute. Ah, come mi aveva deriso.

La campana che aveva chiamato gli schiavi, aveva detto; quella era la dimora di coloro che avevano bagnato di sangue la terra. Perché ero stato spinto lì dagli inni delle anime semplici ed esaltate? Sarebbe stato giusto che ogni casa come quella cadesse in rovina. Avevamo litigato. Litigato davvero, come succede agli innamorati.

«È questo che vuoi?» aveva chiesto. «Non sentire mai più il sapore del sangue?»

«Era una cosa semplice, pericolosa ma semplice. Facevo ciò che facevo per restare vivo.»

«Oh, tu mi rattristi. Che menzogne. Che menzogne. Cosa devo fare perché tu capisca? Sei così egoista, così cieco?»

Avevo visto di nuovo la sofferenza sul suo volto. Il balenare della sofferenza che la umanizzava completamente, avevo teso le mani verso di lei.

E per ore eravamo rimasti abbracciati, o almeno così parve.

Adesso la pace e il silenzio. Tornai indietro dal ciglio del precipizio e l’abbracciai di nuovo. La sentii parlare mentre guardava le grandi nubi torreggiami, attraverso le quali la luna riversava la sua luce bizzarra. «Questo è il Regno dei Cieli.»

Sembrava che non importassero più che le cose semplici, come giacere insieme o sedere su una panchina di pietra. Era la felicità pura, cingerla con le braccia. E avevo bevuto di nuovo il nettare, il suo nettare, sebbene piangessi e pensassi, ah, ecco, ora vieni disciolto come una perla nell’aceto. Sei perduto, piccolo diavolo, lo sai, perduto in lei. Attendevi e li guardavi morire. Attendevi e guardavi.

«Non c’è vita senza morte», sussurrò lei. «Ora io sono la via, la via dell’unica speranza di vita senza lotta che mai potrà esistere.»

Sentii le sue labbra sulla mia bocca. Mi chiesi se avrebbe mai fatto ciò che aveva fatto nel sacrario. Ci saremmo avvinghiati nello stesso modo, prendendo il sangue l’uno dall’altra?

«Ascolta i canti nei villaggi. Puoi sentirli.»

«Sì.»

«Poi ascolta i suoni della città, molto più in basso. Sai quanti morti vi sono stati questa notte? Quanti sono stati massacrati? Sai quanti altri moriranno per mano degli uomini se non cambiamo il destino di questo posto? Se non lo innalziamo a una nuova visione? Sai per quanto tempo si è protratta questa battaglia?»

Secoli prima, ai miei tempi, era stata la colonia più ricca della corona francese. Ricca di tabacco, indaco, caffè. C’era chi vi aveva guadagnato una fortuna in una stagione. Ora il popolo spogliava la terra, si aggirava scalzo per le strade sterrate; i mitra latravano nella città di Port-au-Prince, i morti dalle camicie di cotone colorate giacevano a mucchi sul selciato. I bambini attingevano l’acqua dai fossi. Gli schiavi erano insorti, avevano vinto e avevano perso tutto.

Ma è il loro destino, il loro mondo. Sono umani.

Akasha rise sommessamente. «E noi che cosa siamo? Siamo inutili? Come giustifichiamo ciò che siamo? Come possiamo stare in disparte e assistere a ciò che non vogliamo modificare?»

«Immagino che sia sbagliato», dissi, «e che sia peggio per il mondo, e che alla fine tutto sia orrore, irrealizzabile, ineliminabile… e allora? E tutti quegli uomini nelle tombe, la terra trasformata in un cimitero, un rogo funebre. E nulla è meglio. Ed è ingiusto, ingiusto.»

«Chi ti dice che è ingiusto?»

Non risposi.

«Marius?» Com’era sprezzante la sua risata: «Non capisci che ora non vi sono più padri, adirati o no?»

«Vi sono fratelli e sorelle», dissi io. «E troviamo i nostri padri e le nostre madri gli uni negli altri, non è così?»