E la cosa più terribile è che non saprai chi vincerà alla fine… se lei trionferà o se sarà la fine per tutti. È come non sapere cosa significava tutto, e perché, e cosa significava il sogno delle gemelle, e com’era stato creato il mondo. Non lo saprai mai.
Piangevo, e Akasha piangeva, ed era di nuovo l’essere tenero e fragile che avevo abbracciato a Santo Domingo, l’essere che aveva bisogno di me; ma quella debolezza non la stava annientando, dopotutto, sebbene quasi sicuramente avrebbe annientato me.
«Lestat», mormorò, quasi incredula.
«Non posso seguirti», dissi con voce che si spezzava. Mi alzai. «Non siamo angeli, Akasha. Non siamo dèi. Molti di noi aspirano a essere umani. Per noi, è appunto l’umano a essere diventato mito.»
La guardavo e mi sentivo morire. Pensavo al suo sangue che scorreva in me, ai poteri che mi aveva dato, alla sensazione di volare con lei tra le nubi. Pensavo all’euforia nel villaggio haitiano, quando le donne erano venute con le candele, cantando inni.
«Ma è ciò che sarà, amor mio», sussurrò lei. «Trova il coraggio!» Le lacrime di sangue le scorrevano sul viso. Le tremavano le labbra e la fronte liscia era segnata dalle rughe diritte dell’estrema angoscia.
Poi si raddrizzò. Distolse lo sguardo da me, il suo viso ridivenne inespressivo e privo di rughe. Non ci guardava. Sentivo che stava raccogliendo le forze per agire e che gli altri dovevano muoversi in fretta. Lo desideravo… sarebbe stato come piantare un pugnale nel suo corpo; dovevano abbatterla subito, e io sentivo le lacrime scorrermi sulle guance.
Ma stava accadendo qualcosa d’altro. Da chissà dove giunse un sommesso suono musicale. Vetri che andavano in frantumi, una quantità di vetri. Daniel si animò di colpo. E anche Jesse. Ma i vecchi restarono immobili ad ascoltare. Ancora vetri infranti: qualcuno stava entrando da una delle tante porte di quella casa grandissima.
Akasha arretrò di un passo, si scosse come se avesse una visione; e un suono cavernoso riempì la tromba delle scale dietro la porta aperta. C’era qualcuno, là sotto nel corridoio.
Akasha si scostò dal tavolo, verso il camino. Sembrava che avesse paura.
Era possibile? Sapeva chi si stava avvicinando? Un altro essere antico? Era questo che temeva? Che se fossero diventati più numerosi avrebbero potuto compiere ciò che non potevano?
No, non era un calcolo tanto diffìcile, io sapevo. Era una sconfitta interiore. Il coraggio l’abbandonava. Era la necessità, la solitudine, dopotutto! Era incominciato con la mia resistenza, e gli altri l’avevano aggravato, e poi io le avevo inflitto un altro colpo. E adesso era inchiodata da quel suono impersonale ed echeggiante. Tuttavia sapeva chi era: lo intuivo. E lo sapevano anche gli altri.
Il rumore diventava più forte. Il visitatore saliva le scale. Il lucernario e i vecchi piloni riverberavano a ogni passo.
«Ma chi è?» gridai all’improvviso. Non resistevo più. Di nuovo l’immagine, l’immagine del corpo della madre e delle gemelle.
«Akasha!» disse Marius. «Lasciaci il tempo che chiediamo. Dimentica il momento. Ci basta!»
«Per che cosa?» ribattè lei quasi selvaggiamente.
«Per le nostre vite, Akasha», disse Marius. «Per tutte le nostre vite!»
Sentii Khayman ridere sommessamente, Khayman che non aveva parlato neppure una volta.
I passi avevano raggiunto il ballatoio.
Maharet era sulla soglia, e Mael stava accanto a lei. Non li avevo visti muoversi.
E poi vidi chi era e che cos’era. La donna che avevo intravisto muoversi nella giungla, emergere dalla terra, percorrere miglia e miglia sulla pianura brulla. L’altra gemella dei sogni che non avevo mai compreso! Ora stava incorniciata dalla luce fioca delle scale e fissava Akasha, ritta a una decina di metri con le spalle rivolte verso la parete di vetro e il fuoco scoppiettante.
Ah, la vista di quell’essere! Tutti si lasciarono sfuggire esclamazioni, persino gli antichi, e lo stesso Marius.
Era ricoperta da un sottile strato di terriccio che le incrostava anche i lunghi capelli. Il fango screpolato e macchiato dalla pioggia le aderiva addosso, le stava incollato alle braccia nude e ai piedi scalzi come se fosse fatta di terra. Gli occhi cerchiati di rosso spiccavano come in una maschera. Era rivestita d’uno straccio, una coperta lacera e sporca, legata intorno alla vita con una corda di canapa.
Quale impulso aveva indotto un essere simile a coprirsi, quale modestia umana aveva spinto quel cadavere vivente a farsi quel semplice indumento, quale resto sofferente del cuore umano?
Maharet, al suo fianco, sembrò indebolirsi di colpo, come se fosse sul punto di crollare.
«Mekare!» sussurrò.
Ma la donna non la vedeva e non l’udiva: fissava Akasha con occhi che brillavano d’intrepida astuzia animale mentre la regina indietreggiava, metteva il tavolo tra sé e la nuova venuta, e il suo volto s’induriva, il suo sguardo si colmava d’odio aperto.
«Mekare!» gridò Maharet. Tese le mani e cercò di afferrare la donna per le spalle, di farla voltare.
La donna mosse la mano destra, spinse all’indietro Maharet e la scagliò attraverso la stanza, contro la parete di fronte.
La grande vetrata vibrò ma senza rompersi. Maharet la toccò incerta; quindi, con l’eleganza fluida d’un felino, balzò in piedi fra le braccia di Eric che stava accorrendo per aiutarla.
Immediatamente arretrò verso la porta perché la donna, in quel momento, colpì il tavolo enorme, lo fece scivolare verso nord e quindi lo rovesciò.
Gabrielle e Louis si portarono in fretta all’angolo nord-ovest, Santino e Armand dall’altra parte, vicino a Mael, Eric e Maharet.
Noi che eravamo sul lato opposto ci limitammo a indietreggiare, eccettuata Jesse che s’era spostata verso la donna.
Si fermò accanto a Khayman e, quando lo guardai, vidi con grande stupore che sulle sue labbra era spuntato un sorriso amaro.
«La maledizione, mia regina», disse. La sua voce si alzò, riempì la sala.
La donna s’immobilizzò nel sentirlo alle sue spalle. Ma non si voltò.
E Akasha, con il viso che balenava nella luce del fuoco, rabbrividì visibilmente. Le lacrime ripresero a scorrere.
«Tutti contro di me, tutti!» disse. «Nessuno ha voluto schierarsi al mio fianco!» Mi fissò, mentre la donna riprendeva ad avvicinarsi.
I piedi infangati della donna strusciavano sul tappeto. La bocca era socchiusa, le mani leggermente protese, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Tuttavia mosse un passo dopo l’altro in un atteggiamento di minaccia.
Khayman parlò di nuovo e la fece fermare.
Gridò in un’altra lingua, e la sua voce acquistò volume fino a diventare un ruggito. A me giunse soltanto una comprensione indistinta.
«Regina dei Dannati… l’ora della peggiore minaccia… mi leverò per fermarti…» Compresi. Erano state la profezia e la maledizione di Mekare… di quella donna. E tutti i presenti lo sapevano e lo capivano. Era legato al sogno inspiegabile.
«Oh, no, figli miei!» gridò all’improvviso Akasha. «Non è finita!»
Sentivo che stava raccogliendo i suoi poteri; vedevo il suo corpo tendersi, i seni sporgere, le mani alzarsi come per un riflesso istintivo, con le dita contratte.
La donna ne fu colpita e sospinta all’indietro; ma subito resistette. Quindi si raddrizzò a sua volta, spalancò gli occhi e si avventò, con le mani tese verso la regina, così velocemente che non riuscii a seguirne il movimento.
Vidi le dita incrostate di fango scattare verso Akasha, vidi la faccia di Akasha quando l’altra le afferrò i lunghi capelli neri. La udii urlare. Poi vidi il suo profilo, mentre la testa urtava la vetrata occidentale e l’infrangeva e il vetro cadeva in grandi schegge acuminate.
Uno choc violento mi squassò; non potevo respirare né muovermi. Stavo precipitando sul pavimento, incapace di controllare le mie membra. Il corpo decapitato di Akasha scivolava lungo la parete di vetro sfondata, e le schegge cadevano tutto intorno. Il sangue grondava sul cristallo spezzato, e la donna teneva per i capelli la testa mozza di Akasha!